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martedì 22 ottobre 2019

Blog Tour Dark Zone: Roberto Ciardello - Elena Mandolini




Gennaio, estrema periferia romana, notte fonda senza sogni.
Con la testa incassata tra le spalle e le braccia incrociate sul petto a difendersi dal freddo, osserva il muro davanti a sé. Anzi, quello che c’è sopra. È la prima volta che si cimenta con spray e mattoni, lui che fino a quel momento i graffiti li ha provati solo in scala ridotta, la matita in una mano e tanta fantasia da riversare sui fogli.
Ha scelto il muro in fondo al Dieci Buchi, quello che fa da tappo alla stradina senza uscita in origine chiamata Vicolo degli Astri, un muro grigio che ora grigio non è più. Che ha bevuto il sangue dei fratelli D’Amato dalla pozza ai loro piedi, muto testimone di una delle tante facce disgraziate della miseria.
È successo l’anno scorso, in primavera, lo ricorda perché il bar sotto casa aveva già messo in mostra l’enorme uovo di Pasqua per la riffa. Era scoccata la mezzanotte, si dice, e Giovanni D’Amato aveva le tasche piene dell’oro del portagioie di sua madre. Oro da barattare con un rotolo di banconote. Perché la scimmia sulla schiena amava essere ingioiellata.
Giovanni D’Amato tremava d’astinenza. E di paura. Perché suo fratello Paolo era lì davanti. Perché glielo aveva detto, che se avesse ripreso a bucarsi l’avrebbe fatto lui una volta per tutte. L’avrebbe bucato.
Paolo D’Amato parlava poco. E mai a vanvera. Era uscito di galera da due settimane: tentato omicidio.
Così, uno tremava e l’altro camminava. Uno era spalle al muro in fondo al vicolo cieco e l’altro a quel muro si avvicinava.
Chi avesse detto a suo fratello dove trovarlo e a che ora, Giovanni non l’avrebbe mai saputo.
Perché Paolo D’Amato parlava poco. E mai coi morti.
Nove bocche di sangue si aprirono sul corpo di Giovanni D’Amato, nove iniezioni di un grosso ago a serramanico. Cadde a terra scomposto in un’overdose d’amore fraterno. Proprio mentre il blu intermittente di una gazzella in ricognizione si infilava nella stradina.
Beccato. Braccato.
E fissando quell’animale scattare andandogli incontro quasi volesse incornarlo al muro, Paolo D’Amato decise di bucarsi anche lui. Un’unica, mortale dose sparata dritta nel collo. Talmente potente che del serramanico penetrò anche un pezzo di impugnatura.
Così si dice.
A distanza di un anno, se si guarda bene durante i giorni estivi più luminosi, quando il sole picchia in mezzo al cielo e la mattina cede il passo al primo pomeriggio, si può cogliere ancora qualche residuo di sangue sull’asfalto. Macchioline di un colore diverso, nient’altro. Macchioline essiccate di vita che fu.


Un altro grido. Mi affaccio in corridoio e vedo degli infermieri correre verso una stanza poco più avanti. In lontananza la ragazza urla ancora.

Lucia?

Ho davvero paura che sia lei. Devo capire se è così.

«Resta qui» faccio ad Alessandro e corro per raggiungere la stanza di Lucia.

Un medico entra difilato e io mi avvicino per controllare cosa stia accadendo. Lei è sdraiata sul letto. Un infermiere con la stessa struttura fisica di Martin le sta a cavalcioni, bloccandole le braccia. Lucia continua a gridare. Alterna strilla a frasi senza senso.

«No, no. Perdonami.» Urla.

«Non volevo.» Grida.

«Ho pa-paura.»

Il modo in cui urla l’ultima parola mi fa tremare. Quello strillo era carico di disperazione, angoscia e panico.

«Lucia?» pronuncio il suo nome sottovoce. Faccio un passo per entrare nella stanza, ma un secondo infermiere con in mano una siringa piena di liquido trasparente mi chiude la porta in faccia.

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