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lunedì 27 aprile 2020

Blog Tour Dark Zone: Daniele Viaroli - Francesca Bertuca



È noto in tutto il multiverso che il viaggio dimensionale sia un’esperienza traumatizzante. I manuali medici di Crocevia ne descrivono i vari effetti nel dettaglio, differenziandoli a seconda del varco utilizzato per cambiare piano d’esistenza. Per quanto tutti convengano che siano i portali per il Regno dei Morti ad avere i peggiori effetti collaterali, d’altronde anche un’esperienza all’altro mondo può essere fastidiosa se c’è da lasciarci la pelle, wormhole e buchi neri occupano con poco distacco il secondo posto.
Ciò che avviene all’interno di queste particolari fenditure dimensionali è fonte di grande dibattito. Diversi scienziati sostengono che si venga decomposti a livello molecolare per essere ricostruiti alla destinazione d’arrivo. Altri rincarano la dose dicendo che, in realtà, tale processo avviene a livello subatomico. Altri ancora dicono cose a caso mentre spendono le scarse sovvenzioni statali per svaligiare la macchinetta delle merendine.
Jake, la cui conoscenza della fisica si fermava ad alcuni esperimenti con la forza di gravità, lo scarso equilibrio, la faccia e il pavimento, non avrebbe saputo descrivere cosa gli fosse accaduto all’interno del buco nero, ma era perfettamente in grado di raccontare come si sentì una volta uscito. Un buon riassunto delle sue sensazioni comprendeva: nausea, giramenti di testa, dolore alle ossa, tachicardia e una vaga puzza di pattumiera.



Skald, morente, stramazzò a terra, le dita sollevate in direzione dell’assassino e gli occhi vacui smarriti nello spazio. Tamponandosi la ferita letale, lasciò vagare lo sguardo in direzione della stella polare. Un ultimo saluto alla donna che aveva cercato in ogni angolo del multiverso per quasi mille anni. 
Con la mano libera tastò il terreno alla ricerca di Ombra e, quando le sfiorò una zampa, tuffò le dita nel pelo azzurro. Nel rendersi conto che anche la pelliccia della volpe era intrisa di sangue, cercò di trattenere le lacrime.
«La vita è crudele» gli sussurrò la voce affranta e roca di un uomo, «e la morte non ha rispetto per la dignità dei grandi uomini.»
Skald, steso in una pozza di sangue e olio motore, non rispose. Quelle parole lo distrassero dal doloroso omaggio che, conscio d’essere prossimo all’ultima ora, stava tributando alle persone amate. Tornò in sé con un sussulto e notò l’uomo sedersi sul cadavere metallico di Alfred. Lo vide abbassare il capo, i capelli grigi a coprirgli il volto pieno di rughe.


«Diecimila rubli. Diecimila, per ogni Richter consegnato vivo.» 
Alec inarcò un sopracciglio, guardando il soldato d’inchiesta. Non era la prima volta che ne vedeva uno, venivano spesso alla fucina a fare domande sugli indigeni, ma non ne aveva mai incontrato uno simile a quello che aveva davanti. Era basso, tanto che per sporgersi sul bancone stava sulle punte dei piedi come una ballerina. La ballerina più racchia del mondo. Come tutti i soldati dei Van de Lias aveva la pelle pallida e una massa disordinata di capelli ricci. 
Alec lo guardò con attenzione, badando a non farsi vedere. Era quasi certo che quel tizio fosse qualcuno d’importante, uno che con i rossi non condivideva solo lo stendardo, ma anche il sangue. Altrimenti non si sarebbe spiegato come fosse possibile che quella specie di nano con la faccia da rospo fosse lì, in veste ufficiale.
(…)
«Quanto a voi, ragazzo?»
Alec deglutì, voltandosi verso il soldato. Non vide niente. 
Solo all’ultimo si ricordò della sua statura e abbassò precipitosamente gli occhi sotto l’orlo del bancone. 
«Diecimila rubli per un Richter» proseguì lui, con quella voce stridula. «Trentamila per William der Richter. Il distruttore di flotte. Profanatore di vergini. Assassino di infanti.» 
«Mai visto.»
«Cosa mi dite a riguardo di un certo Chester Diggory?» «Che i suoi dovevano volergli molto male per chiamarlo così» rispose, di getto, scoccando un’occhiata alla porta dell’ufficio. «Wilhelmina?»
«Sentite» disse, tornando a guardarlo. «Non ho idea di dove 
si nasconda certa gente, ma state pur certo che se l’avessi ve lo direi. So quello che hanno fatto ai bambini di Auschwitz.» 
Il soldato sbuffò, ma non sembrava innervosito. Quando Alec tornò a guardarlo, vide che si stava sistemando il berretto anticenere sui capelli ricci. Non poté fare a meno di tirare un sospiro di sol-lievo. 



Il calice era vuoto. Markus ne fissò la superficie argentata. Il suo riflesso era deforme, spigoloso. La cicatrice gli spaccava a metà le rughe della fronte. I suoi occhi sembravano così sproporzionati, rispetto al mento, da conferirgli l’aspetto di un predatore. 
Di un mostro.
«Permettete, maestà?»
Markus sollevò il calice. Attese che il coppiere dodicenne 
finisse di versargli del tè tiepido, poi l’allontanò con un cenno della mano. Alle sue spalle, i nobili, i soldati e alcuni baronetti lo stavano fissando. Dal palco, il direttore d’orchestra aspettava un suo segno. Tutti i sussurri erano sospesi su un filo invisibile che attendeva solo di essere reciso. Con due dita rivolte verso il cielo, Markus avrebbe potuto comandare a un sacerdote di sposarsi, al suo esercito di assediare Hanstad e, persino, decapitare sua moglie. 
Per un momento meraviglioso, valutò la possibilità di farlo. 

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