Movimenti alle sue spalle.
Erano passi rapidi che si spostavano da destra a sinistra,
poi un po’ più vicini da sinistra a destra. Dave si accorse solo in quel
momento di essere cieco in quell’oscurità pesante. Si voltò verso il varco e
corse il più veloce possibile verso il cono di luce tiepida.
La sua vista era impotente e qualcosa si muoveva alle sue
spalle. Si sentì braccato come una minuscola preda impaurita fino a quando
spuntò sulla riva ciottolosa di un fiume in secca.
Il rumore cessò. Eppure Dave si sentiva ancora più
vulnerabile nello spazio aperto.
Era sudato, lacero in diversi punti delle braccia, con il
volto graffiato dalla vegetazione che poco prima lo aveva frenato...
… forse volontariamente...
... nella sua fuga. Ansimando si
chinò, unendo le mani a coppa e sorseggiando dell’acqua fresca da quel che
rimaneva del fiume. Le ginocchia, pressate sui sassi dal peso del corpo, gli
dolevano.
Ciò che l’uomo stanco e affannato vide nello specchio
d’acqua di fronte a lui lo fece tremare, sobbalzare e incespicare. Cadde con il
sedere nell’acqua, ma poi si rialzò e si avvicinò immediatamente al punto in
cui prima si era trovato a bere.
Ellen sembrava riflessa sullo strato immobile di acqua, ma
sulla spiaggia non c’era nessuno oltre a lui. Era bellissima. Accanto alla
donna, una bambina stringeva al petto un foglio di carta logora, a quadretti.
Deve esserci un posto qua
vicino.
Continuava a tremare dalla paura.
Il rumore di passi ricominciò più forte e più agghiacciante
di prima. Proveniva dai limiti del bosco. Si avvicinava.
La bimba staccò dal vestitino a fiori colorato, dalle
tonalità quasi irriconoscibili in quel buio notturno, il foglio di carta e lo
girò lentamente, troppo lentamente.
«Sbrigati, ti prego.»
Troppo lentamente, i passi gli erano quasi addosso.
«Forza bambina, fallo. Devo svegliarmi.»
Il foglio ruotò con una lentezza esasperante, tanto che Dave
cominciava a temere che non si sarebbe svegliato mai più, reso prigioniero...
… e parte integrante di questo
sogno...
...dal rumore alle sue spalle. Chissà, i suoi conoscenti
avrebbero pensato che la morte lo aveva voluto con sé nel sonno.
Finalmente il foglio sgualcito fu rivolto verso di lui, rivelandone
il sinistro contenuto. Ciò che vide lo fece deglutire sgomento.
Il rumore di passi svelti, decisi ma al contempo delicati,
rabbiosi nella loro frenetica cadenza, risuonavano ormai sui sassi della riva
del fiume, il tutto avvolto da un silenzio delirante.
I passi erano oramai a poche decine di metri.
La
sensazione di incredulità mi accompagna da ieri sera e non accenna a svanire.
Il tentativo di ricerca su Google per il nome di Lorenzo Rossi ha prodotto
milioni di risultati, tutti riferiti a gente che non c’entra con il mio caso. E
non è andata meglio nemmeno con l’analisi di numerosi profili Facebook e
Linkedin. Nella maggior parte dei casi, infatti, non coincideva neanche l’età.
Ho
provato allora ad aggiungere qualche dato in più per restringere il campo e
rendere la ricerca più specifica, scrivendo «Lorenzo Rossi Pisa» oppure
«Lorenzo Rossi MIT», ma niente. Ho selezionato dagli strumenti avanzati solo i
risultati in Italiano, ma nulla è cambiato. Avendo scoperto proprio nelle
ultime pagine trovate ieri sera che Lorenzo ha frequentato la Normale di Pisa,
mi è sembrato naturale provare a entrare direttamente in quel sito per fare
delle ricerche. Utilizzando il motore interno, ho raggiunto l’archivio e ho
consultato l’albo ufficiale online.
Era come
se Lorenzo Rossi non fosse mai passato di lì.
La
Casa de la Abeja aveva un
qualcosa di rurale con quell’unico piano attorno a un patio centrale, tra un
albero di ceiba e le arcate coloniali in pietra rossa su cui si aprivano sale
imbiancate a calce e camere da letto essenziali, oltre a un ampio salone scuro,
pieno di trofei di caccia.
C’erano
intere epoche accatastate sulle mensole, agli angoli, sui mobili ; le tracce
delle vite che si erano susseguite e che ora apparivano come dei ricordi
stanchi, o come la polvere di un presente che nessuno si curava di soffiare
via. C’era un modo di procedere per accumulo negli oggetti che si ammassavano,
nel disordine che non intaccava la pulizia grossolana degli ambienti, come se
chi ci viveva occupasse quello spazio con la consapevolezza di essere
provvisorio là dentro o ovunque, sapendo di poterci restare ancora per giorni,
mesi, e poi andare, passare, sparire.
Per
ogni passo che spendeva attraversando quella casa, Miranda si sentiva
sopraffare da una mancanza che si faceva voce, mano, volto, risvegliandosi in
un incubo travestito da sogno, che l’aveva cercata e a cui lei si era svenduta.
Gli occhi abituati fin da bambina a case lussuose, ai teatri più rinomati, a
città che sue coetanee non avrebbero visto in tutta una vita, ora si
ritrovavano a posarsi su cuscini logori che coprivano il fondo delle sedie,
statuine e suppellettili dimenticate sulle masserizie.
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