venerdì 17 maggio 2019

Review Party: SAVAGE di Debora C. Tepes



Una donna fortunata… Ecco come mi avrebbero definita in tanti.
Ma nessuno conosceva la verità.
Ero disposta a tutto pur di scappare dalla mia gabbia dorata e dal mio aguzzino. Mio marito, il sindaco di Sacramento.
E l’ho fatto.
Sono partita per rinascere.
Ho abbandonato il mio personale inferno per approdare in un paradiso di una bellezza accecante: la giungla è diventata la mia casa, l’oceano il mio solo amico, il cielo l’unico testimone.
Eppure questi luoghi inesplorati sono tutt’altro che ospitali e celano un pericoloso segreto. Due occhi glaciali mi scrutano nella notte, un predatore affamato mi bracca senza sosta, un animale feroce mi insegue con rabbia.
Lui è la natura. La più incontaminata, lussureggiante e insidiosa natura.
Un uomo.
Una belva.
L’ennesima.
Il fato non è stato clemente con me.
Mi chiamo Ophelia e sono una sopravvissuta.
Mi chiamo Ophelia e sono ancora in pericolo.

Eccomi con una nuova recensione a uno dei libri di Debora Tepes, che anche questa volta ottiene il mio pieno consenso e dimostra di avere uno stile ben riconoscibile ma altrettanto capace di modellarsi nel modo corretto al tipo di storia narrato.

Partiamo col dire un paio di parole sulla protagonista femminile, Ophelia, una donna bellissima di 27 anni, in fuga dal marito violento. Il sindaco Brad Thompson è una bestia che di giorno si nasconde dentro abiti eleganti e costosi ma che di notte mostra la sua vera natura. Sei anni di abusi, umiliazioni e maltrattamenti spingono finalmente Ophelia a cercare la sua isola felice, nel vero senso della parola. Per questo un giorno, dopo essere arrivata a un passo dalla morte per mano del marito violento, decide di raccogliere poche cose e partire per Nadi, una piccola isola delle Fiji, meta lontana e insolita, che spera possa assicurarle di riuscire a far perdere le proprie tracce.

Ophelia sente da subito una forte affinità con quel luogo di pace e magia, tanto che il suo bisogno di vivere la natura del posto la mette subito in moto. E così, poco dopo il suo arrivo sull'isola, decide di essere rimasta in disparte per troppo tempo e di voler ritornare ad essere una donna intraprendente, capace di mettersi in gioco, coraggiosa come la ragazza che è sempre stata prima del suo matrimonio fallimentare. Insieme a una guida locale parte per un'escursione attorno ad alcune isole dell'arcipelago, che si dice siano popolate da tribù indigene che vivono allo stato brado.

A causa di un evento non programmato, Ophelia si trova in una situazione del tutto paradossale, ed è su una di queste isole che incontra una figura difficile da etichettare, complessa come nessuna conosciuta prima ma altrettanto semplice nella sua purezza.

"Questo incontro è diventato così intimo, così ravvicinato. È tutto troppo profondo. Estremamente primordiale."


È Kamlesh, un indigeno cresciuto da solo sulla stessa isola sulla quale è finita lei, un ragazzo di qualche anno più giovane che racchiude nei suoi occhi profondi un bambino e un uomo territoriale.
Ho adorato la prima parte del romanzo, durante la quale i due ragazzi si studiano e imparano a conoscersi, è molto profonda. Quasi palpabile la sensazione che si prova vedendoli interagire con tutti e 5 i sensi, visto che non possono usare la parola poiché parlano lingue differenti.
Fra i due sono solo sensazioni e istinto, non ci sono inganni, è tutto puro. E a differenza del rapporto con il marito, Kamlesh, che dovrebbe essere un vero predatore a causa delle condizioni in cui si è trovato a vivere, non le trasmette pericolo ma solo curiosità e voglia di essere protetta.
La natura circostante diviene un personaggio a pari livello con i due protagonisti. È interessante vedere la loro relazione con la natura raccontata da entrambe le parti, grazie ai due pov alternati; lui che la venera come fosse una dea e lei che piano piano inizia a fare lo stesso, poiché non è più tutto scontato come quando si va al supermercato, ma il più piccolo frutto diviene sinonimo di vita.


Anche in questo romanzo, ho trovato la stessa caratteristica che si trova in tutte le donne create da Debora, la forza interiore, il non lasciarsi andare, il voler combattere sempre. Anche in questo caso, dove Ophelia dovrebbe sentirsi spaventata dalla situazione, conserva comunque forza e curiosità di voler scoprire cosa c'è oltre.
Ed è quasi magico assistere a questi due mondi, quello di Ophlia e quello di Kamlesh, collidere, diventare parte l'uno dell'altro, senza pretendere, senza lasciare che uno dei due schiacci l'altro. Il loro è rispetto reciproco e li rende complementari ma anche simili, nonostante le enormi differenze.

"L'indigeno cresciuto da solo su un'isola è più umano dell'uomo che mi ha promesso amore e devozione eterni su un altare".

Un finale che a mio parere fa venire voglia di saperne di più, chissà se Debora ci racconterà ancora qualcosa sul "dopo"...
Sperare non costa nulla 😆


Una storia del tutto nuova, dal fascino selvaggio, grazie soprattutto all'ambientazione.
Nonostante si tratti di un retelling, ho trovato comunque originale lo sviluppo della trama e il modo in cui i due protagonisti hanno imparato a interagire, un esperimento molto lontano dai maschi alpha e dalle pallottole messicane a cui ci ha abituato l'autrice ma decisamente ben riuscito.



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