Un brivido
gli corse sulla schiena. Si girò di scatto e vide una creatura ai limiti del della
zona illuminata in cui aveva trovato rifugio. Non l’aveva sentita arrivare, non
aveva percepito nulla. Né i suoi sensi allenati, né i suoi incantesimi di
protezione lo avevano avvisato del pericolo. Si meravigliò nel rendersi conto
che stava mentalmente pregando che la luce non si spegnesse, che la creatura
non potesse entrare dove era illuminato.
Appariva
umana ma non lo era. I suoi occhi brillavano d’oro e la sua pelle era troppo
bianca per essere quella di un essere umano.
«La luce del
lampione attira sempre» la voce della creatura bassa e gutturale.
«Tu sei...»
Devon mise a fuoco quel viso e si strinse il braccio e il tatuaggio.
«Già, io
sono, e quel tatuaggio non ti servirà a molto. Venite sempre attratti dalla
luce, come le falene. Poi però finite bruciati.»
La creatura
allungò le mani verso il cilindro di luce, poi le ritrasse sorridendo. Una luna
di denti bianchi contornati da labbra sanguigne.
«Io sono in
contatto con il Vaticano, se mi fai del male verranno a cercarti.»
«Peggio per
loro.»
Devon
richiamò alla mente le parole dell’incantesimo di fuoco che conosceva meglio,
il suo cavallo di battaglia, quello che usava quando voleva impressionare
qualcuno o quando si trovava davanti a un nemico troppo forte.
Un cerchio
magico comparve davanti alle sue dita, dal quale saettò uno strale di fiamme
incandescenti.
Troppo veloce
per essere deviato, troppo rapido per essere controincantato.
Colpì la
creatura in pieno petto sbalzandola leggermente indietro.
Ma non la
uccise.
Quella alzò
lo sguardo che adesso brillava di una luce più intensa, le labbra si stirarono
in un sorriso, poi arrivarono le sue parole, strascicate e dense.
«Ancora
stregone. Ne voglio ancora.»
La creatura
avanzò di due passi ed entrò nel cono di luce del lampione.
«Una
lampadina non ti salverà.»
Devon evocò
il potere del tatuaggio di protezione e il mondo esterno si fece ovattato, reso
distante dalla barriera che si era innalzata intorno a lui. Si mise a correre
per raggiungere la sicurezza della Basilica, corse senza girarsi indietro,
corse senza pensare più a nulla se non salvarsi la pelle.
Il velo che
lo ricopriva si sfilò da lui come un guanto, i sensi di nuovo colpiti dal
freddo dell’aria e dal rumore dei propri passi.
La creatura
gli comparve davanti senza preavviso. I muscoli di Devon si bloccarono e lui
non poté più muoversi.
«Non farà
male. Domani non ricorderai nulla e dovrai solo pensare a costruirti una vita
da umano.»
Le labbra
della creatura erano fredde e secche. Si posarono sulle sue con poca grazia e
la stanchezza arrivò con un’ondata violenta.
Devon sentì
ancora quel tocco gelido sul collo e sul petto, ma la sua coscienza era già
distante mentre si accasciava a terra.
Non era in
grado di vederli, tantomeno di sentirli, ma i suoi tatuaggi magici, eredità del
suo passato di studi e ricerche, stavano strisciando sul corpo, correvano verso
le labbra della creatura per essere assorbiti, per essere mangiati.
Insieme a
loro il suo potere magico venne risucchiato via, i suoi studi, le sue
conoscenze, parte dei suoi ricordi.
La creatura
era già distante e lui rimase a terra a tremare per ilfreddo. La luce dei
lampioni tornò, la nebbia si dissolse alla prima folata di vento caldo, le
nuvole si diradarono lasciando spazio alla primavera calda della capitale.
Al risveglio,
Devon, stregone cacciatore, collaboratore dell’Inquisizione, nemesi di tante
creature magiche fuori legge, profondo conoscitore delle arti magiche, non
sarebbe rimasto che un ragazzo di trent’anni, belloccio e ben vestito, sbronzo
per aver bevuto troppo con gli amici a San Lorenzo. Un ragazzo come tanti altri
allo sbando e senza un posto nel mondo, un po’ depresso e alla ricerca di un
lavoro.
La cosa
peggiore sarebbe diventata il ricordo. La memoria di ciò che era stato, il
senso di perdita del futuro che si era costruito e che non avrebbe più potuto
recuperare.
Con lo
studio, ricominciando da zero, forse sarebbe riuscito a padroneggiare di nuovo
qualche incantesimo. Niente di eclatante, era troppo vecchio per tornare un
vero cacciatore, troppo debole per tornare a essere temuto e rispettato.
La paura di
quella notte era destinata a diventare una compagna per la vita, il senso di
impotenza e debolezza un inquilino fastidioso, che avrebbe potuto scacciare
solo con alcol e droghe.
Non avrebbe
potuto più capire, non avrebbe potuto più armeggiare la magia. Avrebbe solo
potuto assaggiarla e sfiorarla, al massimo comprarla o rubarla.
E il dolore
sarebbe sempre aumentato.
«Pensavo che
a Roma facesse caldo in questo periodo» disse indicando lo spolverino nero.
«Sì, infatti
si muore con questo coso addosso ma ne ho bisogno per nascondere i miei
strumenti magici. Se vedi uno con uno spolverino in estate a Roma, stai pure
certa che è uno che traffica con la magia» intanto ci incamminammo verso
l’uscita. «In ogni caso sotto porto solo una maglietta, fa caldo uguale ma non
muoio.»
Uscimmo nel
parcheggio dove avevo lasciato la mia fiammante Fiat Uno Hobby blu degli anni
’90. Ultima visita da un meccanico, negli anni ’90 appunto. Ultimo lavaggio...
più o meno lo stesso periodo.
Era un pezzo
d’antiquariato, il mondo la definiva un rottame ma cavolo se ero affezionato a
quel catorcio! L’avevo comprata con i soldi che avevo preso per il primo lavoro
di natura magica: un wiccan che aveva pasticciato con un rituale insieme a un
paio di amici.
L’auto si
mise in moto con un allegro scoppio sonoro e un rumore ritmico e cigolante di
pale e pistoni. La cara vecchia musica che preannunciava sobbalzi, improvvisi
colpi di tosse del motore e lunghi fischi a ogni frenata.
Un bel po’ di
persone si girarono a guardarci mentre arrancavamo verso l’uscita. La mia
piccolina catturava l’attenzione tanto quanto il decolté di Elyss.
«Sicuro che
non ci fermeranno andando in giro con questa?» disse mentre cercava la cintura
di sicurezza. «Ma non c’è il... seatbelt?»
«Le cinture
di sicurezza? No, le ho staccate un paio di mesi fa. Ero in una situazione
complicata con un satiro mezzo pazzo a Lariano, non avevo una corda con me,
così... non ti preoccupare non ci dicono niente. Un comandante della municipale
mi deve un favore e se pure dovessero fermarci vedrai che andrà bene.»
Elyss fece
una risatina nervosa e un po’ acuta, poi si mise a guardare intorno.
L’abitacolo
dell’auto era in condizioni forse peggiori della carrozzeria che pure era un
bel Picasso. Il tessuto del tetto si era scollato in più punti e pendeva
formando delle sacche molli e sospette, macchie di umidità e bruciature
tappezzavano i sedili, il vetro era opaco di grasso e quello che sembrava un
colpo di pistola decorava il lato del passeggero. In verità era il ricordo
lasciato da una coccatrice che non voleva saperne di farsi portare via dal
pollaio in cui era nata. Vari amuleti erano appesi allo specchietto retrovisore
e un bastoncino d’incenso bruciava nel portaoggetti davanti al sedile del
passeggero.
Elyss alzò un
piede e vide che sotto di lei era iscritto un glifo di protezione, forse un po’
rudimentale per gli standard inglesi. Il suo sopracciglio era schizzato verso
l’alto a mo’ di folgore.
«Quello serve
in caso di frenata brusca» le spiegai.
«Are yousure? Mi sembra gli manchi un
simbolo o due per non essere solo un tappetino macchiato.»
Buttai un
occhio nella sua direzione e mugugnai qualcosa sul fatto che poi lo avrei
ricontrollato.
«Posso
mettere un po’ di musica?»
Si mise ad
armeggiare con lo stereo dell’auto e la fermai al volo un po’ imbarazzato.
«No, lascia
perdere. È un vecchio stereo a cassette. Figurati, fa un suono terribile.»
«Mh... that’s a pity» si girò a guardare fuori
dal finestrino e con il cellulare scattò qualche foto.
Guidai in
silenzio per alcuni minuti, poi mi resi conto che non avevo idea di dove avrei
dovuto portarla. Non sapevo nemmeno se aveva prenotato una stanza in albergo o
qualche bed&breakfast.
Glielo chiesi
ma la risposta non fu quella che mi aspettavo.
«Ma a casa
tua, ovvio!»
La Uno
sussultò a tempo con me.
«A casa mia?
Ma non ho posto, non posso ospitarti» cazzo casa era un cesso!
«Hai un divano
e un bagno con la porta?»
«Sì, certo,
ma...»
«Allora tu
dormirai sul divano, non avremo bisogno di altro. Per quanto riguarda le
lenzuola ci basterà passare a comprarle da qualche parte. Dove hai detto che
abiti?»
«Sulla
Casilina...» mugugnai ripensando al casino che avevo lasciato in casa. Ai
cartoni di pizza sul tavolino, ai vestiti sporchi nel bidet del bagno, al
groviglio di lenzuola del letto che avrei dovuto cambiare almeno tre settimane
prima.
«Molto bene.
Ci sono alcuni siti interessanti lì intorno, giusto?»
«Alcuni,
niente di troppo importante.»
«Andrà
benissimo!»
Più lei si
dimostrava entusiasta e più il mio umore scendeva sotto le scarpe. Elyss mi
sorrise smagliante.
Il trucco
nero contornava gli occhi azzurri, le lentiggini si erano arricciate sugli
zigomi, i capelli le ricadevano neri e lisci in ciocche sulla fronte e non
trovai più nulla da obiettare.
Sei un mollusco.
Che ne
capisci tu che non hai nemmeno un corpo fisico!
Una ragazzina
mi si avvicinò insieme ad altre bambine. Mi prese la mano e dopo avermi
salutato con enfasi si mise a studiare le linee del palmo con grande serietà.
Disse
qualcosa nella sua lingua, ridacchiò insieme alle altre, poi si fece seria, con
la fronte corrucciata e le piccole dita che seguivano le tracce della mia
pelle. Alzò gli occhi e scosse leggermente la testa, mi diede un bacio sulla
guancia e mi salutò tornando tra gli altri, portandosi appresso le amichette.
Mi sa che aveva letto qualche sfiga.
Elyss invece
era stranamente allegra. Aveva parlottato con Codruca, avevano guardato delle
carte che penso fossero tarocchi e poi delle pietre divinatorie. Sembrava a suo
agio con un bicchiere di vino a discutere in lingua rom.
Quando si
venne a sedere vicino a me, mi ero distratto a guardare il fuoco e mi prese un
po’ di sorpresa.
«Ehi, ti ho
spaventato?»
«No, ero
sovrappensiero» non riuscivo a togliermi di dosso quella sensazione viscida di
aver fatto una schifezza, con quell’incantesimo di verità.
«Hai
mangiato? È buona la carne, dobbiamo essere in forze per quando andremo al
Castello.»
«Mh, sì»
risposi laconico.
«Michele, non
stare a corrucciarti per l’incantesimo di prima. Avrei fatto lo stesso al posto
suo.»
«È che è
stato così... intenso. Insomma...»
Elyss mi
diede qualche pacca sulla spalla e mi fece sentire stupido e infantile, mentre
lei che aveva subito si dimostrava tranquilla e superiore.
“Gelem, gelem, lungone dromensa...”
Goran si era
messo in mezzo al cerchio, fisarmonica alla mano e aveva cantato queste prime
parole a voce alta e dolorosa. Tutti intorno si erano fermati, avevano smesso
di chiacchierare, di mangiare, di sorridere.
L’atmosfera
era cambiata in un attimo, ogni paio d’occhi era puntato su di lui. Anche
Alexander si era distratto dalla meditazione e stava prestando attenzione.
“MaladilembakhtaleRomensa
a Romalekatartumenaven,
e tsarensabahktaledromensa?”
Mi girai
verso Elyss: «Che succede? Che dice?»
La canzone
era triste e disperata, gli altri mormoravano le parole muovendo le labbra.
«È una
canzone importante. Una specie di inno del popolo rom se mai potessimo
immaginarne uno. Recita più o meno così:
“Camminando, camminando su lunghe strade
Ho conosciuto Rom pieni di gioia
O Rom, da dove venite
Con le tende, su queste strade felici?
Uomini Rom, giovani Rom!
Una volta avevo una grande famiglia
La legione Nera li ha uccisi
Venite con me Rom da tutto il mondo
Per i Rom si sono aperte strade
È il momento, alzatevi ora
Saliremo alti se partiremo
Oh Rom, oh fratello Rom.”
Parla dello
sterminio del popolo rom da parte dei nazisti. Parla delle loro persecuzioni,
dei loro sogni infranti. Parla della strada felice che hanno perso e che forse
non troveranno più. Parla di persone che sono state perseguitate e disperse.
Parla di quello che non sarà più.»
Goran ci
guardava, aveva sentito Elyss parlare. Le sorrise e fece un inchino e tornò a
sedersi.
Rimanemmo in
silenzio per un po’, la musica allegra era ripresa e tutti avevano ricominciato
a ballare, a bere e a magiare.
«Devi stare
attento stanotte» mi disse.
«Come?»
«Sai perché
muoiono i praticanti di magia? Non per il demone o per qualche altro motivo
sovrannaturale. Non perché affrontano mostri o nemici più potenti. Queste sono
solo fatalità. Ma gli incantatori non muoiono per delle semplici fatalità.
Quelli come noi cadono perché in un mondo fatto di magia, dove puoi volare e
comandare gli elementi naturali, ti dimentichi che la morte è possibile, ti
dimentichi di essere solo un delicato involucro di carne e sangue e che la vita
è fragile, molto più delle forze che governi. È proprio in quel momento che lei
viene a prenderti. E a quel punto però è troppo tardi per tornare indietro.»
Elyss si girò
verso di me e mi posò un bacio sulle labbra.
«Fai
attenzione a non dimenticare che devi sopravvivere» si alzò e andò di nuovo a
sedersi vicino a Codruca.
La festa era
ricominciata ma non aveva più lo stesso sapore di prima.
Cercai di
prepararmi a quello che sarebbe seguito, cercai di sentire il suo sapore sulle
labbra ma c’era una domanda che continuava a martellarmi nelle orecchie.
Cosa sarebbe
rimasto di me alla fine di questo viaggio?
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