Notte
fonda. Quando Ivan raggiunse l’indirizzo del direttore, c’erano già tre dei
suoi a perlustrare la zona. Non aveva faticato molto ad assoldarli, era bastato
spendere il nome di Niko Strinić e le loro menti erano volate sulla ricompensa
ancora in palio. A Boris era appena nato un figlio, Danijel il Fiumano aveva problemi
con le rate di un mutuo espresso in franchi svizzeri e Luka l’Ustascia era disoccupato
da troppo tempo.
Ivan
avrebbe potuto reclutarne altri mille con lo stesso scarso preavviso, ma aveva
deciso di non diffondere troppo la notizia. Con tutta la malavita a caccia del
fuggiasco, si sarebbe potuto intromettere qualche altro gruppo meglio preparato
e meno propenso a dividere l’eventuale bottino.
Faceva
caldo. Non pioveva da una settimana e quel giorno la temperatura aveva toccato
i trentaquattro gradi. Tuttavia Ivan era in giacchetta estiva, in modo da
celare sotto la falda sinistra una fondina ascellare. Un’altra pistola era nella
borsetta di Jelka, una graziosa morettina dall’acconciatura emo e il volto da
bambola. Corpo aggraziato, poco seno ma gambe niente male. Aveva appena
soffiato su ventun candeline e inforcava un paio di lenti rettangolari
assemblate in una montatura nera. Era la ragazza che l’aveva riportato a casa
da Trieste dopo il conflitto a Gorizia. A Ivan piaceva perché sotto le
sembianze da scolaretta ribolliva un insaziabile desiderio di sangue e perché
le sue dolci chiacchiere erano un toccasana per la pressione arteriosa, giunta
in quei minuti a livelli da cardiopatico.
La morte
di Domagoj, l’uomo capace di toglierlo dalla strada e di insegnargli il
mestiere, lo aveva svuotato di ogni certezza, ma gli aveva anche regalato il
comando e sarebbe stato fantastico se avesse corroborato con un successo la sua
prima missione da protagonista.
Non dopo la volta in cui ti hanno
lasciato nudo negli spogliatoi e hanno scritto con un pennarello nero quella
parola sulla tua schiena.
“Verme.”
Ma ora è diverso, puoi entrare
senza che nessuno ti veda. Puoi sbirciare le gambe di Sara sotto il gonnellino,
mentre agita i pon pon imitando le cheerleaders americane, e contemplare i suoi
seni ballare sotto il pullover, anche se non hai mai avuto il coraggio di
rivolgerle la parola.
Senti le urla sgraziate, osservi
quei visi rossi congestionati, li vedi saltellare sugli spalti come tanti
capponi cui stanno per tirare il collo e capisci che non sei come loro. Non lo
saresti mai stato. Ma ora sei qualcosa di più.
Ti muovi incorporeo, sfiori i
capelli delle ragazze profumati di camomilla e lavanda, come la biancheria di
pizzo «san gallo» della nonna ancora sistemata nei cassetti.
È il momento. Si sente il fischio
d’inizio riecheggiare forte, la partita è appena iniziata e tutti sono
distratti dal suono ritmico della palla sul parquet in attesa di andare a
canestro.
Sai cosa fare. Il quadro
elettrico si trova proprio davanti a te; è una scatola di metallo blu acceso.
Te l’ha indicata Ezio, il custode, quella volta che sei stato punito. Ti sei
dovuto fermare a fare le pulizie per aver cavato un occhio al gatto della
preside Mariani.
Apri lo sportello. Un groviglio
di fili elettrici fuoriesce dal muro.
Ti basta concentrarti e una
pioggia di faville azzurrine si propaga lungo la matassa di fili che, come
capelli bruciati, riempirono l’aria di un fumo acre.
Quando il sole tramonta e la luna domina il
cielo notturno, noi poveri stolti vediamo solo un mero meccanismo e
dimentichiamo di soffermarci sulla maestosità dell’universo. Nasciamo
innocenti, puri in ogni angolo della nostra anima, ma crescendo diventiamo
avidi di possesso, di attenzioni, di noi stessi. Ci ossessioniamo all’idea di
vivere una vita migliore dei nostri genitori, vogliamo essere qualcosa che
vaoltre la nostra natura. Siamo così schifosamente ambiziosi da non guardare un
attimo indietro per ricordarci da dove proveniamo; cosa, in sintesi, eravamo.
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