venerdì 15 gennaio 2016

Le Giornate di Autore : Reborn Autrice di Miriam Mastrovito


Titolo: Reborn
Autrice: Miriam Mastrovito
Genere: New Gothic
Editore: youcanprint
Pagine: 294
Cartaceo: 16,90
Ebook: 2,99
Una bambina venuta dal passato.
Una madre in lutto.
Un folle eroe romantico.
Un cocchiere dall’occhio di vetro.
Una storia d’Amore e Morte che vi condurrà al confine tra i mondi.


Da quando ha perso il marito Andrea e la figlia Martina in un incidente stradale, Elga non è più la stessa.  Si è isolata dal mondo e vive di ricordi. Il suo unico diversivo è rappresentato dalle bambole reborn che crea per mestiere.
Il 9 settembre 2013, giorno in cui Martina avrebbe compiuto dieci anni, Elga realizza per lei una bambola, come avrebbe fatto se fosse stata ancora viva. A sera, la sistema nella cameretta, che ha lasciato intatta dal giorno della sua morte, celebrando così quella ricorrenza speciale.
La mattina dopo viene accolta da una strana sorpresa: una bambina che non conosce si è intrufolata in casa. Sembra avere la stessa età di sua figlia ma non le somiglia per niente.
Rea − questo il suo nome − sostiene, invece, che Elga sia proprio la sua mamma ed è la stessa cosa che affermano tutti in paese.
Quale la verità?
Per scoprirla la donna potrà contare solo su Iuri, giovane impiegato delle Onoranze funebri nonché stalker che da tempo la tormenta.
Sarà l’inizio di uno strano viaggio che la condurrà al confine tra i  mondi, lì dove regna il mistero e la Morte non è che l’inizio di una vita oltre.






Era ormai immersa in un sonno profondo quando avvertì un soffio gelido sul collo. Elga ebbe come l’impressione che qualcuno stesse alitando sulla sua pelle. Istintivamente tentò di voltarsi ma non poté muoversi. Tuttavia percepì con chiarezza una presenza alle sue spalle, le sembrò che qualcuno si fosse infilato nel letto e che la abbracciasse da tergo, stringendola talmente forte da impedirle qualsiasi movimento. “Martina?” L’interrogativo prese forma nella sua mente ma non lo pronunciò ad alta voce, o almeno così le parve perché avrebbe giurato di stare ancora dormendo.
Per tutta risposta una manina di bimba le artigliò il braccio.
A quel gesto la donna si sentì mancare il respiro. Tirò su col naso nel tentativo di incamerare più aria e un forte odore di terra bagnata le riempì le narici.
Decisamente no, non era l’odore di sua figlia, ma quella mano disperatamente aggrappata alla sua …
«Martina?» annaspò. La sensazione di soffocare si fece più intensa eppure non provò paura né dolore; la prepotenza di quell’abbraccio sembrava poter stritolare tutta la solitudine ed Elga desiderò solo abbandonarsi a quella strana morsa di gelo e gommapiuma.  
“Sei qui piccola mia” pensò, mentre calde lacrime prendevano a scorrerle lungo le guance. Poi d’improvviso sentì la stretta allentarsi, la mano che la teneva divenire sempre più inconsistente. Non poté vedere, ma percepì la pelle come sgretolarsi, l’arto scomporsi in mille e mille granelli di polvere che dal suo corpo scivolavano sulle lenzuola.
Nell’attimo preciso in cui avvertì l’ultimo granello rotolare via udì qualcuno che la chiamava.
«Mamma, mamma…» La voce quasi afona proveniva da un punto distante dal letto.
Elga scattò a sedere. «Martina!» scandì spalancando gli occhi e accendendo la luce in un unico gesto.
I suoi singhiozzi risuonarono nella stanza vuota.



Fu il rumore della pioggia a destarla prima ancora che suonasse la sveglia. Elga si stropicciò gli occhi con indolenza. Le tempie le pulsavano, si sentiva stanca come se non avesse riposato affatto.
Il cielo plumbeo e quell’odioso ticchettio sui vetri non promettevano nulla di buono, non a lei che detestava le giornate piovose.
Barcollando scese le scale e si diresse in cucina. Un caffè caldo e un’aspirina l’avrebbero aiutata a carburare. Non realizzò subito di non essere sola. In un primo momento, la penombra in cui era immersa la stanza fece sì che l’oscura sagoma si confondesse nel gioco d’ombre alimentato dalle bambole, assiepate ovunque. Mentre cercava il tasto dell’interruttore, si udì un fragore potentissimo e un lampo illuminò l’ambiente. Fu allora che la vide.
Una bambina sedeva alla sua tavola ed era intenta a mangiare avidamente la sua torta.
Non si scompose vedendola entrare, si limitò a sollevare il viso, era tutto sporco di cioccolata. Sorrise con la bocca piena fissandola con un paio di occhi blu.
Elga rimase come impietrita, batté le palpebre confusa quasi che il gesto potesse cancellare quella visione onirica. Perché solo di questo poteva trattarsi… accese la luce, aprì e chiuse gli occhi ripetutamente, ma la bimba restò lì. Poteva avere dieci anni, tanti quanti ne contavano le candeline. Non fosse stato per i capelli lisci e neri, per le iridi di un altro colore, per la magrezza delle braccia…
Scosse la testa con violenza nel tentativo di scacciare quel pensiero folle.
«Come hai fatto a entrare?» chiese invece dando voce alla supposizione più logica.
Lei le rivolse un’occhiata interrogativa.
«Chi sei e cosa ci fai in casa mia?» rilanciò la donna balbettando.
L’ostinato silenzio dell’altra la inquietò e la indispettì allo stesso tempo. «Non mi hai sentita? Perché non mi rispondi? Il gatto ti ha mangiato la lin…»
«Mammina…» la risposta fluì simile a un’implorazione dalle sue labbra mentre gli occhi le si gonfiavano di lacrime.



[…] Il vostro più grande errore sta nel sottovalutare il Caos. Lascia che te ne dia una dimostrazione.» Ogma reclinò il capo lasciandosi cadere l’occhio finto sul palmo della mano. Lo chiuse in un pugno e vi soffiò dentro come fosse un prestigiatore, poi, sotto lo sguardo stupefatto di Iuri, allentò la stretta e un cilindretto si materializzò nelle sue mani. Sorrise mostrando i denti candidi, quindi porse l’oggetto al suo interlocutore. «Avanti, prendilo! Non è un’arma letale, è solo un caleidoscopio.»
L’altro afferrò il manufatto con sospetto.
«Sai come si usa?»
Iuri annuì.
«Forza allora, guardaci dentro e dimmi cosa vedi.»
Lui obbedì di nuovo. Accostò un occhio all’obiettivo e guardò. «Vedo schegge di vetro colorato.»
«Molto bene, adesso ruotalo e poi dimmi di nuovo cosa vedi.»
Iuri eseguì. «Tre stelle, ciascuna di colore diverso. Una è posta in cima alle altre due a formare una specie di piramide.»
«Un disegno meraviglioso. Non trovi?»
Iuri si allontanò il caleidoscopio dal viso e tornò a guardare Ogma. «Te lo concedo.»
«L’attimo prima c’erano solo pezzetti di vetro. È bastato un colpetto e quei vetri si sono spostati componendo un disegno bellissimo. Se torni a ruotare il cilindro la magia si compirà ancora: i vetrini si sparpaglieranno e poi andranno a comporre una figura nuova, diversa ma non meno sorprendente. Così all’infinito. E ora dimmi, l’artista chi è?»
L’altro fece spallucce e restituì lo strumento.
«A me puoi dirlo» lo incoraggiò Ogma in tono suadente. Soffiò sul caleidoscopio e al suo posto ricomparve l’occhio. «Nessuno» aggiunse sistemandolo nell’orbita vuota. «Per quanto siano meravigliosi, quei disegni nascono dal Caos e sono del tutto casuali. Non c’è nessuno a progettarli né a eseguirli eppure ciò non li rende meno apprezzabili.» Fece una pausa e bevve ancora. «Voi uomini siete schegge di vetro, Iuri. Schegge di vetro lanciate sul piano dell’infinito, mille e mille volte. Ciascuna delle vostre vite è un disegno casuale che si realizza. A volte si tratta di un capolavoro, altre volte no, ma non c’è un progetto e nemmeno un padre amorevole. Non c’è amore lassù e non siete i figli privilegiati di nessuno. Che ti piaccia o no, quelli che reputi piccoli miracoli non sono che coincidenze. Strabilianti. Fottute. Coincidenze.»





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