mercoledì 22 gennaio 2020

Blog Tour Blog Tour Dark Zone: Jordan River - Miriam Palombi




Crepuscolo Dorato

 Il sole tagliava la radura con raggi che filtravano tra le fronde fitte e rigogliose, illuminando le spalle di colui che lo aveva preso in consegna, una silhouette nera dalle dimensioni gigantesche. La prima cosa che riuscì a mettere a fuoco fu il volto di un vecchio, dalla barba a punta che scendeva sin sotto il collo, folta e ordinata, con alcuni anellini di legno. Il capo era calvo, restavano solo lunghe basette. Il naso era importante, labbra sottili, zigomi e arcata sopraccigliare sporgenti. I suoi occhi verdi erano due pozzi rugosi e vivi. Esprimevano una saggezza infinita, che si perdeva nelle nebbie del tempo, la capacità di penetrare l’animo come nessun altro. Occhi antichi, con un velo di gentilezza.
Poi lo sguardo di Laris mise a fuoco il resto del corpo del vecchio e trasalì, restando a bocca aperta. Aveva due spalle possenti e muscolose, le braccia erano abbandonate lungo fianchi poderosi e percorsi da nervi guizzanti. Dalla cintola in giù, spariva tutto ciò che poteva identificarlo come uomo. Aveva il corpo di un cavallo, dal manto nero come la notte : era alto due metri al garrese, forse di più. Le zampe terminavano in grossi zoccoli ricoperti dalla tipica peluria dei palafreni delle zone nordiche. Una folta coda frustava l’aria, dietro di lui.
Laris comprese in quell’istante che si trovava al cospetto di un leggendario centauro, una delle creature mitiche che avevano popolato le favole e i racconti dei veterani dei tempi passati e delle nonne attorno ai fuochi.


Le Arpie

« Guardate, miei cari, chi ci onora oggi della sua presenza!» squittì Lady Priscilla, con una nota incrinata nella voce.
Tutti gli sguardi si volsero sul giovane che ormai era arrivato al loro cospetto. Mise le mani dietro la schiena, intrecciandovi le dita. Si lasciò cadere in un profondo inchino e salutò.
« Porgo i miei omaggi a tutte voi, nobili donne di Kallispar, e un saluto a tutti voi, nobili uomini di Kallispar.»
« Deliziosamente grezzo » fu il commento di Lady Lucrezie, da dietro un ventaglio tempestato di smeraldi che avrebbe dovuto forse celare le sue parole.
Lady Larissa si levò con sinistra leggiadria. Il suo fisico sinuoso glielo permetteva, i lunghi capelli neri e lisci come seta si muovevano di vita propria. Gli passò accanto, prendendolo sottobraccio con una dolcezza inattesa.
« Suvvia, Lucrezie, è pur sempre il salvatore della nostra principessa e futura Signora di Kallispar. Non è di certo avvezzo alle nostre usanze e raffinatezze, vero?»
Ryan, a fatica, nascose il ribrezzo che gli comunicava quel tocco. Forse tra le quattro lei era la pericolosa, almeno a livello fisico. Sebbene il contatto fosse dolce, l’avventuriero era in grado di distinguere un fisico allenato e uno no. Lady Larissa, dietro quella sua algida ieraticità, era tonica e dotata di una muscolatura guizzante.
« È certamente così» rispose lui, con un breve cenno del capo.
Poi i suoi occhi vennero catturati da quelli di Lady Sofia, assisa su uno scranno imbottito e sontuoso, che lo guardava con uno sguardo gentile, ma sotto sotto era evidente una curiosità quasi morbosa.
« State bene, ser Ryan ? Vedo una traccia di stanchezza sul vostro volto. »
La partita era iniziata e lui si trovava già a giocare in difesa. Si affidò al pensiero che il buon senatore, lontano a Prime, lo potesse ispirare con la sua saggezza.
« Temo di non essermi ancora ripreso dal mio precedente acciacco. Sebbene tornato in forze, il gelo del lago è ancora dentro, da qualche parte.»
« Oh, povero» gemette Lady Priscilla, volgendosi alle altre con sguardo carico di significato. « Speriamo che questo gelo non vi abbia compromesso il fisico» commentò Lady Larissa, accompagnandolo con dolce fermezza presso un divanetto a due posti ove sedettero, serviti di tartine e bevande da un valletto.
« Sarebbe un vero peccato» concluse lei, scoccandogli uno sguardo terribile. Sembrava capace di divorarlo con gli occhi. E non solo.

L’uomo salì le scale che si snodavano ripide, come le vertebre dorsali di un gigantesco animale. Osservò la propria mano. Tremava.
Si appellò al suo sangue freddo, ma non riuscì a controllare quell’irrefrenabile tremore.
Strinse il corrimano d’ottone, liscio e lucido, un saldo appiglio per quella salita interminabile.
I gradini erano strette lingue di onice nera, troppo angusti e pericolosi. Era buffo, ma si accorse solo in quel momento, a dispetto di tutte le volte in cui negli anni li aveva percorsi, di non sapere in realtà quanti fossero.
La discesa in Paradiso e la salita agli Inferi.


Marco afferrò con la punta delle dita quel triangolo di carta piena d’increspature. Poche righe vergate con inchiostro scuro e poi una serie di firme, calligrafie differenti con diverse inclinazioni, alcune quasi incomprensibili che riempivano l’intera pagina. Tutte avevano una cosa in comune: appartenere all’antica famiglia degli Arrighi.
Marco lesse le parole in calce e tutto fu chiaro.
«Lascio a te, sangue del mio sangue, ogni mia cosa, ogni mio fardello. Che il sangue possa suggellare il patto, come in vita così nella morte. Persevera nella ricerca e non tradire.
Angiolo Arrighi».
Marco scorse quell’elenco di nomi e in ultimo vi trovò quello di Leone Arrighi, riconoscendo la minuta calligrafia del nonno.
«È tutto vero… il tesoro, la maledizione, ogni cosa».


Aveva permesso che tutto ciò accadesse. Aveva spalancato la porta, sottovalutando il pericolo.  Le creature diaboliche delle leggende slave non erano solo superstizione, ora ne aveva la prova.
Non gli permetterò di entrare…, pensò.
Subito dopo si portò il pugno chiuso alla bocca, sentì il freddo contatto sulla lingua, sentì il sapore ferroso del metallo, sentì il pezzo di ferro graffiargli il palato e poi scendere giù per la gola.
Aveva ingoiato la chiave.
Quel vecchio idiota aveva ingoiato la chiave. Non riusciva a crederci, ma non si sarebbe certo fermato.
Il corpo del frate era a terra, mosso da spasmi incontrollati. Antonioli si alzò, raggiunse l’altare e prese il crocefisso di ferro battuto afferrandolo per la base squadrata.
Brandi l’oggetto sacro come fosse un’arma e, senza esitare, si avvicinò a quel corpo steso al suolo.

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