Crepuscolo
Dorato
Il sole
tagliava la radura con raggi che filtravano tra le fronde fitte e rigogliose,
illuminando le spalle di colui che lo aveva preso in consegna, una silhouette
nera dalle dimensioni gigantesche. La prima cosa che riuscì a mettere a fuoco
fu il volto di un vecchio, dalla barba a punta che scendeva sin sotto il collo,
folta e ordinata, con alcuni anellini di legno. Il capo era calvo, restavano
solo lunghe basette. Il naso era importante, labbra sottili, zigomi e arcata
sopraccigliare sporgenti. I suoi occhi verdi erano due pozzi rugosi e vivi.
Esprimevano una saggezza infinita, che si perdeva nelle nebbie del tempo, la
capacità di penetrare l’animo come nessun altro. Occhi antichi, con un velo di
gentilezza.
Poi lo sguardo di Laris mise a fuoco il resto del
corpo del vecchio e trasalì, restando a bocca aperta. Aveva due spalle possenti
e muscolose, le braccia erano abbandonate lungo fianchi poderosi e percorsi da
nervi guizzanti. Dalla cintola in giù, spariva tutto ciò che poteva
identificarlo come uomo. Aveva il corpo di un cavallo, dal manto nero come la
notte : era alto due metri al garrese, forse di più. Le zampe terminavano in
grossi zoccoli ricoperti dalla tipica peluria dei palafreni delle zone
nordiche. Una folta coda frustava l’aria, dietro di lui.
Laris comprese in quell’istante che si trovava al
cospetto di un leggendario centauro, una delle creature mitiche che avevano
popolato le favole e i racconti dei veterani dei tempi passati e delle nonne
attorno ai fuochi.
Le Arpie
« Guardate, miei cari, chi ci onora oggi della
sua presenza!» squittì Lady Priscilla, con una nota incrinata nella voce.
Tutti gli sguardi si volsero sul giovane che
ormai era arrivato al loro cospetto. Mise le mani dietro la schiena,
intrecciandovi le dita. Si lasciò cadere in un profondo inchino e salutò.
« Porgo i miei omaggi a tutte voi, nobili donne
di Kallispar, e un saluto a tutti voi, nobili uomini di Kallispar.»
« Deliziosamente grezzo » fu il commento di Lady
Lucrezie, da dietro un ventaglio tempestato di smeraldi che avrebbe dovuto
forse celare le sue parole.
Lady Larissa si levò con sinistra leggiadria. Il
suo fisico sinuoso glielo permetteva, i lunghi capelli neri e lisci come seta
si muovevano di vita propria. Gli passò accanto, prendendolo sottobraccio con
una dolcezza inattesa.
« Suvvia, Lucrezie, è pur sempre il salvatore
della nostra principessa e futura Signora di Kallispar. Non è di certo avvezzo
alle nostre usanze e raffinatezze, vero?»
Ryan, a fatica, nascose il ribrezzo che gli
comunicava quel tocco. Forse tra le quattro lei era la pericolosa, almeno a
livello fisico. Sebbene il contatto fosse dolce, l’avventuriero era in grado di
distinguere un fisico allenato e uno no. Lady Larissa, dietro quella sua algida
ieraticità, era tonica e dotata di una muscolatura guizzante.
« È certamente così» rispose lui, con un breve
cenno del capo.
Poi i suoi occhi vennero catturati da quelli di
Lady Sofia, assisa su uno scranno imbottito e sontuoso, che lo guardava con uno
sguardo gentile, ma sotto sotto era evidente una curiosità quasi morbosa.
« State bene, ser Ryan ? Vedo una traccia di
stanchezza sul vostro volto. »
La partita era iniziata e lui si trovava già a
giocare in difesa. Si affidò al pensiero che il buon senatore, lontano a Prime,
lo potesse ispirare con la sua saggezza.
« Temo di non essermi ancora ripreso dal mio
precedente acciacco. Sebbene tornato in forze, il gelo del lago è ancora
dentro, da qualche parte.»
« Oh, povero» gemette Lady Priscilla, volgendosi
alle altre con sguardo carico di significato. « Speriamo che questo gelo non vi
abbia compromesso il fisico» commentò Lady Larissa, accompagnandolo con dolce
fermezza presso un divanetto a due posti ove sedettero, serviti di tartine e
bevande da un valletto.
« Sarebbe un vero peccato» concluse lei,
scoccandogli uno sguardo terribile. Sembrava capace di divorarlo con gli occhi.
E non solo.
L’uomo salì le scale che si snodavano ripide, come
le vertebre dorsali di un gigantesco animale. Osservò la propria mano. Tremava.
Si appellò al suo sangue freddo, ma non riuscì a
controllare quell’irrefrenabile tremore.
Strinse il corrimano d’ottone, liscio e lucido, un
saldo appiglio per quella salita interminabile.
I gradini erano strette lingue di onice nera, troppo
angusti e pericolosi. Era buffo, ma si accorse solo in quel momento, a dispetto
di tutte le volte in cui negli anni li aveva percorsi, di non sapere in realtà quanti fossero.
La discesa in Paradiso e
la salita agli Inferi.
Marco afferrò con la punta delle dita quel triangolo
di carta piena d’increspature. Poche righe vergate con inchiostro scuro e poi
una serie di firme, calligrafie differenti con diverse inclinazioni, alcune
quasi incomprensibili che riempivano l’intera pagina. Tutte avevano una cosa in
comune: appartenere all’antica famiglia degli Arrighi.
Marco lesse le parole in calce e tutto fu chiaro.
«Lascio a te, sangue del mio sangue, ogni mia cosa, ogni mio fardello.
Che il sangue possa suggellare il patto, come in vita così nella morte.
Persevera nella ricerca e non tradire.
Angiolo Arrighi».
Marco scorse quell’elenco di nomi e in ultimo vi trovò
quello di Leone Arrighi, riconoscendo la minuta calligrafia del nonno.
«È tutto vero… il tesoro, la maledizione, ogni cosa».
Aveva permesso che tutto ciò accadesse. Aveva
spalancato la porta, sottovalutando il pericolo. Le creature diaboliche delle leggende slave
non erano solo superstizione, ora ne aveva la prova.
Non gli permetterò di
entrare…, pensò.
Subito dopo si portò il pugno chiuso alla bocca, sentì
il freddo contatto sulla lingua, sentì il sapore ferroso del metallo, sentì il
pezzo di ferro graffiargli il palato e poi scendere giù per la gola.
Aveva ingoiato la chiave.
Quel vecchio idiota aveva ingoiato la chiave. Non riusciva a crederci, ma non si sarebbe
certo fermato.
Il corpo del frate era a terra, mosso da spasmi incontrollati.
Antonioli si alzò, raggiunse l’altare e prese il crocefisso di ferro battuto
afferrandolo per la base squadrata.
Brandi l’oggetto sacro come fosse un’arma e, senza
esitare, si avvicinò a quel corpo steso al suolo.
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