Solo quando arrivo al cospetto del nero mi accorgo che sta pisciando in una ciotola. Quando finisce di scrollarsi l’uccello, lo vedo rimestare nel contenitore impastando ossa di pollo, polvere grigia, legnetti e piscio. Disgustato, faccio per ritrarmi, ma l’uomo si volta verso di me con occhi spiritati.
«La nostra guida, hermano, eccola sorgere!»
Dalla ciotola spunta una sorta di bambolotto, un feticcio dalla pelle scura e dalla testa spropositatamente grande rispetto al corpicino fatto di paglia, sterpi e ossa di pollo. Per occhi ha due conchiglie a spirale color avorio con venature rosse, che mi mettono angoscia. Salta fuori dalla ciotola come una locusta, con rumori di legnetti spezzati, e cammina verso El Roi.
«Che diavoleria è mai questa?» sbotto, allibito, facendomi indietro.
«Perché, campeón, non ti fa tenerezza?»
«Ho sempre avuto il terrore delle bambole assassine.»
«No, hermano, non es asesina, è solo muñeca, Orchidea-muñeca.»
«Cioè? Un demone?» azzardo io, osservando il ghigno sadico che si apre sul volto del bambolotto. Ha denti aguzzi, da piranha, e movenze balorde che sfidano ogni legge della fisica.
«Exacto! Un demone, pequeño. Me ne fotto, io, l’importante è che sappia assolvere al suo compito.»
«Che sarebbe?»
«Farci da guida, da segugio instancabile, meglio di un fottuto cane da tartufo. Sarà lei a guidarci a Orchidea.»
Sono esasperato.
«E chi sarebbe questa Orchidea?» interviene Torakiki, già intento ad accarezzare la testa del piccolo demonio, come fosse un cagnolino da compagnia.
Un fantoccio con conchiglie al posto degli occhi sarà la nostra guida cieca. Siamo messi bene. Sempre meglio!
«Goool! Goool! Evvai!»
La voce di una ragazza.
«Oleee, ole, ole, ole, Itaaalia, olè!»
Cori da stadio mi invadono le orecchie. Apro gli occhi e mi ritrovo in un salotto, innanzi a un televisore. Nell’angolo alto della tv riconosco la bandiera dell’Italia opposta a quella della Germania.
Mi osservo attorno e vedo la mia piccola… Nicoletta ora non è più così piccola in realtà, ma non impiego che un secondo per riconoscerla. È seduta su una poltrona con una coca cola in mano e una sciarpa dell’Italia che mulina nell’aria.
Festeggia spensierata. È diventata sempre più bella, crescendo.
Sul divano a fianco della poltrona vedo in successione Franco, Elisa e Lucrezia. Il bucaniere brinda con una bottiglia di birra con mia moglie. Dopo il brindisi si scambiano un bacio affettuoso, mentre Elisa sventola un tricolore in miniatura.
Bene, si festeggia e l’Italia vince, però non mi riesce di allinearmi all’euforia generale. Anzitutto perché non riconosco quel salotto e ho la spiacevole sensazione che quella possa essere la nuova abitazione sotto il tetto della quale si siano unificate le due famiglie spezzate, per formarne una nuova di zecca.
Nuova e felice. Molto felice, quasi troppo, visto che una ha perso il padre e l’altra la madre. Tutta quell’euforia mi pare ingiustificata, un affronto al dramma della vicenda, al lutto che dovrebbe ammantare quell’ambiente.
Dovrei vergognarmi per questi pensieri da miserabile, insensibile ed egocentrico, ma l’intensità con la quale percepisco la felicità che permea quell’appartamento mi stordisce. La sento colpirmi a ondate, infrangendosi sulla muraglia eretta dalla sofferenza della mia situazione in purgatorio.
Mi odio. Odio loro, la loro felicità, e odio tutti gli Dei e il Fato che mi ha trascinato in questa situazione. Odio i miei compagni e odio il dannato negro che mi ha garantito una speranza ora lontana.
«Mia nonna raccontava che se una coccinella si posa su di una mano rimane immobile per qualche istante. In quei momenti, lei, la signora di tutti gli insetti, legge dentro di te. Quando riprende a muoversi, cammina lenta sulle sei zampe per poi volare via lontana. Non so se tu abbia mai osservato una coccinella in procinto di spiccare il volo. Socchiude un poco le rosse elitre puntinate di nero, le dischiude quel tanto che, per un attimo appena, sembra un cuore… In volo è difficile riuscire a starle dietro, ma dicono che se uno è abbastanza svelto da riuscirci, da correre nella stessa direzione della coccinella, lei lo porterà dalla persona amata, da chi possiede una parte del suo cuore…»
È incredibile come a volte non ti accorgi di cosa ti stia capitando, come la vita intorno a te muti ogni giorno e prenda direzioni inaspettate. E lo fa in modo incredibilmente veloce.
Ora che sono a Torino trascorro tutti gli intervalli qui, sulla scala antincendio della scuola, l’unico posto dove fumare non è concesso ma tollerato. L’ossigeno è sporcato dalla nicotina e io trattengo il fiato il più possibile. Quando espiro non riesco a distinguere se il fumo che fuoriesce dalle mie labbra sia dovuto al freddo o alla sigaretta. Siamo un gruppetto numeroso che, in rigoroso silenzio, sfrutta quel quarto d’ora d’aria per fumare in silenzio e smaltire la noia delle lezioni incolori come il cielo di Torino in autunno. Un mattone, trovato chissà dove da chissà chi, permette alla porta di non chiudersi e bloccare così i fumatori all’esterno; un mattone sbeccato, l’unico baluardo tra la consuetudine della monotonia e l’esistenza libera.
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