Continuava a infilare le abili mani di chirurgo nelle viscere dei pazienti, nei corpi dei cadaveri, per studiare in maniera approfondita il morbo e trovare una cura efficace. Ma fino ad allora aveva trovato soltanto sangue, sangue e ancora sangue.
Ne colava parecchio dalle mani, mentre si lavava, dando le spalle al pittore. «Avete rischiato molto venendo qui, per cercare il vostro amico.»
«Anche voi rischiate molto, stando qui» replicò asciutto Salvator.
«È vero, ma è il mio mestiere.»
«Anche il mio.»
Nel buttare lì quell’affermazione un po’ sbruffona, Salvator Rosa cercò di distogliere lo sguardo dal catino pieno di acqua rosata. Senza riuscirci.
«Salvare vite? È questo che fate? Pensavo che voi foste un pittore.»
«No, affrontare la morte. Mi riferivo a questo. Perché è ciò che voi fate, dottore. Voi affrontate il contagio e la morte con coraggio. Sembra che non vi importi nulla, e cosa ancor più inquietante, da quanto ho potuto vedere, pare che la peste stessa provi stima e rispetto nei vostri confronti. Quasi quanto me. Si capisce dal modo in cui vi risparmia.»
Fiammetta era livida; sentiva che la cosa le stava sfuggendo dalle mani, e non c’era nulla che detestava di più che perdere il controllo di sé.
Erano anni che il padre le impartiva quella regola fondamentale. «Una cosa sola conta nella vita: la lucidità. Mantenendo il controllo riuscirai ad arrivare ovunque desideri.»
Erano incredibili le prove cui l’aveva costretta sin da piccola per raggiungere l’obiettivo dell’«autocontrollo assoluto», come lo definiva lui.
Una volta, a circa dieci anni, era stata costretta a non bere per un’intera giornata. Era estate, faceva caldo. Verso sera aveva le labbra screpolate e provava un’arsura infernale. A quel punto, il padre le aveva mostrato un bicchiere di acqua fresca.
Mentre Fiammetta osservava rapita il movimento in sospensione dei cubetti di ghiaccio, il padre le aveva parlato con tono rassicurante. «Vedi, se ora ti dicessi che non puoi bere, e tu nonostante ciò lo facessi, disubbidendomi, avresti buttato alle ortiche l’intero sacrificio di una giornata.»
Fiammetta aveva avvicinato e quindi ritratto la mano dal bicchiere, come se scottasse.
Il padre aveva annuito compiaciuto. «Per affrontare le prove della vita, anche le più dure, non devi pensare a quanto manca per raggiungere l’obiettivo, ma a quanto hai già sofferto e sudato per arrivarci.»
La bambina aveva aspettato fiduciosa il permesso del padre, che non era arrivato prima di un’altra ora. A quel punto, aveva trangugiato l’acqua tutta d’un fiato, si era sentita male e aveva capito che l’autocontrollo assoluto poteva essere ancora affinato. Cosa che aveva fatto la volta successiva, memore dell’esperienza, bevendo a piccoli sorsetti. Senza esagerare.
Sulla sinistra, a poche centinaia di metri, qualcosa attirò l’attenzione del giovane Nicholas. Un casolare. Le mura esterne erano imbrattate di strani simboli. Croci rovesciate, stelle a cinque punte, si intuiva qualche parola, frasi inintelligibili. Nessuna luce proveniva dall’edificio diroccato.
«Quello cos’è?» domandò il ragazzo.
«Niente» rispose il padre senza nemmeno voltarsi.
«Cos’è che c’è scritto sul muro?»
«Lascia perdere Nicholas»
«Ma tu lo conosci quel rudere? Ci fanno le messe nere? È una chiesa sconsacrata?»
«No, Nicholas, non è niente, lascia stare.»
«Grandioso, ci devo tornare a fare un giro, come si chiama questa via?»
«Nicholas, basta» sbottò Giorgio. «Tu non torni da nessuna parte.»
«Ma perché ti incavoli?»
«Lì sono successe cose brutte» rispose il padre riprendendo la calma. «Tanti anni fa.»
«Tipo?»
«Hanno ammazzato delle persone, e adesso… Non so cosa ci facciano, ma lascia perdere. Non ci andare. Promettimi che non ci andrai.»
«Ma dai, cosa vuoi che succeda?»
«No, Nicholas» il padre urlò. Strinse forte il volante, le dita erano sbiancate, il volto arrossato dall’ira. «Devi promettermi che non ci metterai piede.»
Un silenzio asfittico calò nell’abitacolo per qualche secondo.
«Ok» rispose il ragazzo rassegnato.
«No, non basta. Devi promettere.»
«Va bene, ti prometto che non ci andrò» cantilenò Nicholas. Infine biascicò: «Che rottura che sei».
Giorgio fece finta di non sentire, per nulla rasserenato dalla promessa del figlio.
Arrivarono a casa che era quasi ora di cena. Nicholas si fiondò in camera sua, e il suo primo pensiero fu mandare un messaggio a Simone per raccontargli la vicenda della cascina satanica.
«Dobbiamo assolutamente tornarci» fu il commento dell’amico.
«Lasciaci entrare» ripete la voce in un sussurro spettrale. L’uomo si riscuote, corre verso l’ingresso.
«Lasciaci entrare» appoggia l’orecchio alla porta. Il sibilo ricomincia, ricorda il respiro di un bambino asmatico.
Guarda dallo spioncino. Non vede nulla. Fa due passi indietro. Fissa il piano di legno, la maniglia di ottone brunito, quando d’improvviso dalla feritoia tra porta e stipite, proprio all’altezza della serratura, vede filtrare qualcosa: quelli che sembrano tentacoli sottilissimi, grigi, grezzi come ramoscelli secchi, sfidando ogni logica penetrano nell’appartamento.
«Lasciaci entrare.»
«Andate via» esclama l’uomo impietrito. «Andate via, lasciatemi in pace.»
I viticci si muovono a scatti, disarticolate zampe di un ragno ballerino.
«Lasciaci entrare.»
I tentacoli lignei si intrecciano a formare un avambraccio con cinque dita. L’arto della creatura al di là della porta ruota di trecentosessanta gradi. A tentoni cerca di arrivare alla maniglia.
«Basta, andate via» continua l’uomo, stavolta a voce più alta, quasi gridando.
La mano mostruosa si protende verso di lui. L’uomo fa un balzo all’indietro. L’intrico di vimini prova a spingere ancora di più. L’arto disegna bizzarri svolazzi nell’aria. Poi tocca il muro, ha un attimo di esitazione. In quell’attimo l’uomo colpisce. Il batticarne come un’arma medioevale picchia duro sul dorso della mano ombra, scheletrica, ramificata. Il tonfo è potente. Rimbomba nella tromba delle scale. Il braccio si ritrae, vinto.
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