In un mondo distrutto dalla guerra tra classi sociali, un nuovo Impero regna Sovrano. Un Impero costruito grazie alle capacità di una società progredita, ma legato alle tradizioni dell’ormai lontano Ottocento. Un Impero servito da automi dall’aspetto umano e dalla pelle rivestita di cera. Protetta dalle fredde mura di un palazzo inespugnabile, in Russia, Camille vive la sua vita fra balli e ricevimenti, ignara di essere prigioniera di un’utopia. Contro il proprio volere, verrà promessa al futuro Imperatore. Un uomo meschino, violento e incapace di amare. Mossa dalla disperazione e in cerca di una via di fuga scoprirà l’esistenza di un sotterraneo segreto, dove troverà Lui, sua unica possibilità di salvezza. Su quali menzogne è stato costruito l’Impero Sovrano? Cosa c’è fuori dal palazzo?
Vi erano notti in cui gli incubi intrecciati ai
ricordi si annodavano intorno alla mia anima fragile impedendole di respirare e
sgattaiolare fuori dalla mia stanza abbigliata come un uomo, nascondendo la
lunga chioma castano-dorata sotto al cappuccio di una cappa nera, mi aiutava ad
andare avanti. Perché... anche se solo per poche ore nel cuore della notte,
passeggiando per corridoi deserti riuscivo a far finta di essere altrove, di
non aver perso l’amore di mia madre e di non essere la preda più ambita dal
figlio di un Sovrano senza cuore.
A ogni passo che facevo in direzione della sala dei
ricevimenti, il peso delle gonne che indossavo pareva schiacciarmi a terra.
Ovviamente sapevo benissimo che il peso che faticavo a portare non era
rappresentato dalle gonne, ma da ciò che provavo dentro di me. Percorrevo il
labirinto di corridoi dalle pareti color tortora, illuminato dalle applique a
forma di candelabri esibendo il portamento elegante e composto che meglio si
addiceva a una signorina, quando in realtà mi sembrava di essere una condannata
a morte, con le mani legate e le catene ai piedi.
Era più forte di me. Rinunciare a stuzzicarla
voleva dire non godere di quell’espressione indispettita e agguerrita che le
illuminava il viso.
E io amavo quel suo lato ribelle. Era
irresistibile. Come irresistibile era la morbidezza delle sue labbra che,
premute sulle mie, sembravano aver trovato finalmente la pace.
Ora non sentivo più le lame taglienti del freddo
su di me, ma una delicata sensazione di calore. Un calore che aumentava e si
propagava in me a ogni centimetro di pelle di Camille che le mie mani
inarrestabili esploravano. E mentre rendevo il mio sogno reale, capii che non
avevo desiderato altro dal primo istante in cui i miei occhi si erano posati su
di lei.
Il passato non può tornare, il passato non può essere cambiato.
Nemmeno i sogni hanno un tale potere. Eppure i sogni possono cambiare qualcosa
di molto più importante: presente e futuro.
Quali nefaste conseguenze si
potrebbero scatenare nell’esistenza di un individuo privato della possibilità
di sognare?
Gregory Leali vive a New Castle,
nel cuore del piccolo e riservato stato del Delaware, Stati Uniti. La sua vita,
solo all’apparenza tranquilla e priva di preoccupazioni, in realtà sta
sprofondando e qualcosa è sul punto di aprire una piccola porta, dimenticata
socchiusa da troppo tempo nella sua testa. E’ qualcosa di terribile, di
assolutamente inspiegabile. E’ una sensazione forte, capace di scatenare un
terrore impossibile da affrontare, tanto meno da vincere. Ha già provato il
sapore sgradevole e oltre modo inquietante di certe emozioni che scavano nella
sua personalità, ma quando? Eventi passati tornano in superficie, galleggiano
sopra il pelo dell’acqua, come il cadavere di uno sconosciuto che Greg rinviene
al Punto,
il parco cittadino di New Castle. C’è davvero un sottile filo che lega tra loro
momenti lontani della sua esistenza? Nero e silenzio,
ecco cosa si nasconde dietro quella maledetta porta. Gregory sa benissimo che
chiudere gli occhi e provare anche solo a concepire un nero e un silenzio
tali va ben oltre i limiti della follia. Essere avvolti dalla mancanza totale
dei sensi e da un vuoto assoluto, eppure pienamente consapevoli e coscienti di
sé…
Eventi inspiegabili, una serie
di indizi ambivalenti e l’incontro con Michael Russell, personaggio disarmante
e per certi versi complice e inquisitore allo stesso tempo, porteranno Gregory
all’apertura di una serie di cassetti chiusi a chiave all’interno dalla sua
mente, dai quali emergeranno spicchi di ricordi di un passato che pareva perso
e dimenticato, come se non fosse mai esistito. L’amico Vince Costello e la
nuova vicina di casa, Violet Alnwick, saranno in grado di spezzare le trame di
un destino segnato da qualcosa successo al Gregory di un tempo, al bambino che
fu Greg?
Nero e silenzio
devono essere affrontati, perché questa per Gregory è l’ultima fermata. E
l’esito di tutto ciò non può che passare dall’ultimo ricordo, dall’ultimo sogno
vissuto, da qualcosa che era stato spezzato ai tempi di un’infanzia lontana. Da
un profondo rapporto di amicizia rimosso e cancellato dalla brutalità del
destino. La sottile linea che separa vittoria e sconfitta, vita e morte,
potrebbe spezzarsi da un momento all’altro.
L’orina iniziò finalmente a
zampillare.
Greg poggiò la fronte al braccio
disteso con il quale si reggeva alla parete e il tessuto della camicia gli
deterse la fronte imperlata.
Là sotto, il getto per un attimo
si arrestò, poi riprese con vigore.
Cominciava ad avvertire uno
strano senso di claustrofobia, un fenomeno del quale non aveva mai e poi mai
sofferto. Sembrava che il torace gli venisse compresso da un’enorme mano
invisibile nell’atto di serrarsi lentamente a pugno.
Inspirò a fondo, cercando di
raccogliere quanta più aria gli fosse possibile; fu attraversato nello stesso
tempo da un leggero senso di sollievo e da una sensazione profonda e quasi
straziante, che gli urlava di andarsene, di portare all’istante le chiappe
fuori da lì.
Altro sudore gli bagnò il viso.
Rimase immobile, quasi
ipnotizzato da quello stato di latente claustrofobia.
Vattene, corri, non esitare… non un minuto di più…
Non se ne andò, non corse via ed
esitò in quella posizione a lungo, probabilmente per qualche minuto. La vescica
si era svuotata, ma ora non importava nulla. Continuava a sudare, inspirava ed
espirava a ritmo irregolare, con difficoltà. Quel locale gli dava l’impressione
di essere delle dimensioni di un minuscolo ripostiglio, un piccolo fazzoletto
nel quale soffocare.
Vattene…
Sapeva benissimo che non avrebbe
dovuto voltarsi.
Corri e non esitare!
Poco lontano da dove si trovava,
sopra ai due piccoli lavandini, c’era lo specchio. E non doveva voltarsi.
Non un minuto di più. Per Dio, non un minuto di più.
Non riordinò pantaloni e camicia,
ma con il volto ormai madido di sudore spostò il peso da una gamba all’altra,
tenendo il capo chino, e lasciò l’appoggio del muro.
Alle sue spalle si trovava lo
specchio.
Lentamente iniziò a voltarsi. Tra
l’orinatoio e i lavandini ci dovevano essere non meno di cinque metri, eppure
mentre si voltava sentiva la certezza di essere a un nonnulla dallo specchio,
come se per incanto quella distanza si fosse dissolta, come se non si trovasse
nei bagni del Chrysler Perkins Saloon, bensì in una scatola sempre più
compressa.
Continuava a sudare, eppure
cominciò anche ad avvertire un principio di brivido corrergli lungo la schiena.
Il senso di claustrofobia non
accennava ad allentare la sua invisibile ed energica presa. Ora era davvero a
pochi passi dallo specchio e dai lavandini, ma non ricordava di aver coperto
quella distanza. Si appoggiò con entrambe le mani a uno dei lavabi e sollevò lo
sguardo.
Ed eccolo.
Nello specchio vide il riflesso
del suo volto, ma non aveva nulla di umano. La pelle sul lato sinistro era
sciupata, pallida, quasi ingiallita come pergamena e accartocciata in
prossimità degli angoli degli occhi e della bocca. Vicino all’attaccatura
dell’orecchio pareva invece tirata, lucida e quasi gonfia; dava l’impressione
che da un momento all’altro potesse lacerarsi e lasciare fuoriuscire del pus.
Del lato destro della faccia rimaneva ben poco di riconoscibile. Uno squarcio
si apriva dove avrebbe dovuto trovarsi la guancia e dalla lacerazione
affioravano i tendini sfilacciati. Un rivolo di sangue scuro e denso, nel quale
si mischiava del pus giallastro, gli scorreva da quell’enorme menomazione giù
per il mento, via via lungo il collo, raggrumandosi poco oltre il colletto
sbottonato. Da quel lato del viso l’occhio aveva perso la sua normale
conformazione e sporgeva dall’orbita, come l’occhio di una persona che fosse
sul punto di morire per asfissia. I capelli su tutto il cranio erano lunghi, ma
sottilissimi e radi, tanto che sulla cute erano ben visibili ampi spazi vuoti.
Eppure conservavano un colore castano, sebbene opaco.
Greg era consapevole di ciò che
avrebbe trovato specchiato lì di fronte, come sapeva benissimo che nonostante
le riflessioni di quella vocina che gli giungeva da dentro
vattene, corri, non esitare… non un minuto di più…
non poteva fare a meno di
guardare, non poteva evitare di fissare quella parte di se stesso.
La sua immagine riflessa lo
fissava con quegli occhi privi di vita, ma nello stesso tempo profondi,
ripugnanti, da togliere il fiato.
Ma non solo. Erano occhi
imploranti.
No, Michael Russell non poteva
capire. Nessuno poteva capire.
«Da quanto tempo stai andando
avanti così?» insistette guardandolo negli occhi.
Gregory cercò di sfuggire a
quello sguardo a metà strada tra l’ammonitore e il divertito.
Il brusio del locale sembrava
sempre più vago. Il mal di testa si stava trasformando in un ritmico pulsare
delle tempie, come quella sensazione strana, ma eccitante, che gli capitava
spesso quando era ragazzo, seduto in uno dei carrelli delle montagne russe,
lungo la lenta salita che conduceva il convoglio sulla sommità della struttura.
Si sentiva come se quel viaggio a tutta velocità, ancorati a un’esile lingua
d’acciaio, potesse davvero avere inizio da un momento all’altro.
E se doveva essere, che fosse.
Si aggrappò alla barra di metallo
in attesa della discesa da imboccare e rispose: «Un paio di settimane. Forse un
mese o giù di lì».
Era possibile continuare a
mentire, nonostante i buoni propositi?
Ne seguì una risata distorta da
parte di Michael, un suono carico di qualcosa di molto simile allo scherno.
Quella risata ebbe l’effetto di dare un altro strattone verso l’alto al
convoglio. Greg poteva quasi sentire l’aria tra i capelli, la stessa che da
ragazzo lo riempiva di adrenalina e lo caricava d’attesa. Michael lo fissava
con quegli occhi scuri e quel volto spigoloso che a Greg davano l’impressione
di essere severi e benevoli allo stesso tempo.
«Da quanto?»
«Non lo so esattamente», rispose
alzando le spalle.
«Mesi, Gregory? Io credo anni.»
Cosa poteva saperne quello
sconosciuto?
«Situazioni come la tua si
trascinano per molto tempo. Ma arriva un momento in cui devi prendere una
decisione.»
Il volto di Greg era immobile.
Sembrava quasi che quell’uomo potesse leggergli dentro.
E se ci fosse passato anche quel
tizio prima di lui?
«Era da tempo che non mi accadeva
di pensare a qualcosa di così angosciante», disse Gregory mentre vedeva il
culmine di quella montagna russa venirgli incontro.
Michael annuì, come per
incoraggiarlo a parlare. Alle loro spalle, il vociare della gente, il tintinnio
di bicchieri e piatti spostati, il rumore del legno sotto le suole delle
scarpe, erano diventati suoni lontani e alieni. Era come se lui e Michael
Russell si stessero allontanando.
«Così buio», proseguì Greg
nonostante la gola riarsa che gli rendeva difficile tenere un tono di voce
normale. «Il nero e il silenzio sono cose impossibili da accettare. Fanno
impazzire. All’inizio pensi che sia come chiudere gli occhi ed essere in una
stanza buia e priva di rumore…»
Fece una pausa e deglutì, gli
occhi fuori dalle orbite. La secchezza in fondo alla gola era quasi dolorosa.
Il convoglio era davvero prossimo al culmine. A breve sarebbe arrivato
quell’intenso istante di sospensione, il momento in cui la salita termina e si
è consapevoli che il mondo sta per iniziare a scorrerti di fianco a una
velocità impensabile lungo quella sottile striscia d’acciaio, l’unico vincolo
tangibile con il suolo.
L’unico vincolo tangibile con la
realtà.
«Niente di più sbagliato. Ti
spingi un poco oltre e senti che quel buio e quel silenzio sono neri, sono
inconsistenti, non esistono punti di riferimento. Non hai occhi, non hai
orecchi; assolutamente nessun odore, il gusto non esiste e quel nero non può
nemmeno essere annusato o toccato. Il concetto di tatto non è previsto. Tu non
esisti, sei solo parte del nero. Ma sai quale è la cosa che più ti manda in
orbita il cervello quando arrivi a quel punto?»
La discesa era iniziata, l’aria
in faccia gli toglieva il respiro. Era su una montagna russa infernale.
Si avviò in direzione delle utilitarie, cercando di darsi
una calmata, ma non ci riuscì. I suoi passi echeggiarono sul pavimento in
cemento e le chiavi che teneva nella tasca dei pantaloni iniziarono a
tintinnare al ritmo della camminata. Poi, per non più di un paio di secondi, ci
fu qualcos’altro.
Di nuovo quel rumore. A cosa somigliava? Dava l’impressione
di essere stato un fruscio o qualcosa di molto simile. O forse qualcosa che grattava.
Pareva arrivare da lontano. Una ventina di metri forse, sempre alla sua destra.
Era stato un rumore ovattato, appena percettibile. Eppure non era stata la
paura a ricrearlo nella sua mente, c’era stato davvero.
Anche le luci sembravano diverse; così come l’aria e gli
odori di solito penetranti dell’officina; tutto sembrava diverso, sbiadito.
Prima che potesse muovere un altro passo, il rumore si
ripeté.
Fu brevissimo, poi il silenzio.
Il cuore gli tirava scudisciate tanto forti da sembrare che
volesse fuggire per conto proprio. Si voltò dalla parte da cui erano arrivati
quei rumori e iniziò a indietreggiare, cercando comunque di mantenere campo
libero nel caso si fosse trovato nella necessità di correre.
Quando puntò l’attenzione davanti a sé non vide nulla, solo
una decina di macchine posteggiate con ordine diligente e disposte su due file.
Fece una manciata di passi camminando all’indietro. Un tanfo
improvvisò lo investì, costringendolo a portarsi le mani al volto. Lì dentro
sembrava che ci fosse qualcosa di avariato, della carne lasciata a marcire per
giorni. Era troppo intenso quell’odore perché nessuno se ne fosse accorto
prima, eppure nemmeno uno dei ragazzi dell’officina se ne era lamentato. Non
era l’odore acre e ben localizzato di un problema a qualche condotta fognaria o
di un pozzetto ostruito da parecchio tempo.
Era piuttosto…
… odore di morte. Odore di putrefazione.
Era lo stesso maledetto odore che aveva avvertito prima di
arrivare al Punto, ma molto più intenso. Neppure giù alla pozza, al cospetto
del cadavere gonfio e invaso dalle larve, l’olezzo era stato così pungente.
Una certezza lo investì con la violenza di un treno merci.
Girandosi avrebbe trovato il cadavere del Punto. Lì a terra, magari con occhi
non morti a fissarlo, strisciante e con le carni gonfie e pronte a esplodere,
il volto contratto in un ghigno animalesco. Perdere del tutto il controllo era
un lusso che non poteva permettersi.
Esitò, ma poi iniziò a girarsi.
Vide qualcosa tra due autovetture.
Cosa diavolo era?
Sembrava il lembo stracciato di una pelliccia sgualcita, con
il pelo scorticato e macchiato. Non lo vedeva del tutto, perché era in buona
parte nascosto dalla ruota di una Volkswagen bianco avorio.
Una morsa gli strinse il cuore. Gli venne l’improvvisa voglia
di piangere, ma riuscì a trattenersi anche se gli costò molta fatica, e con la
trachea serrata dal pianto soffocato sul nascere si mosse circospetto.
Aveva addosso una tristezza indicibile e una malinconia
profonda, che per una frazione di secondo gli diedero l’impressione di smuovere
qualcosa in qualche angolo remoto del cervello.
Quando fu a breve distanza dalla Volkswagen, un’altra
manciata di passi laterali gli permisero poco alla volta di mettere a fuoco la
scena. L’odore era insopportabile e sembrava aver raggiunto il picco di
intensità, colpendolo in pieno come un pugno ben assestato.
Fece una smorfia costernata avanzando ancora di qualche
passo.
Non era possibile.
Di fronte a lui, appena sotto alla scocca dell’auto c’era un
cane, o per meglio dire, quel che restava di un cane. Doveva essere stato
investito, perché la carcassa era ridotta veramente male.
In un futuro non molto lontano il mondo così come
lo conosciamo non esisterà più. Le malattie saranno debellate; la morte, il
dolore e la sofferenza non faranno più parte della vita. Non ci sarà spazio per
l’inquinamento che soffoca i mari, l’aria e la terra. Tutto sarà pace,
fratellanza e unione. Nessun crimine violento, nessuna disputa.
Nella perfezione di questo nuovo mondo, tuttavia,
un gruppo di ribelli denominato «Nectunia» combatte la sua guerra silenziosa,
consapevole che tanta eccellenza cela un’amara verità. Quale prezzo paga in
segreto l’umanità al Nuovo Ordine? In che modo dieci uomini e una donna, la «Grande
Madre», scandiscono vite, pensieri e passioni di milioni di persone?
In questa perfezione prestabilita e manovrata,
potrà l’amore, quello vero e libero, disfare le trama di potere del Nuovo
Ordine e ridare speranza all’umanità intera?
Lei mi appoggia un dito sulle labbra. «Siamo nati
liberi», dice. Si alza dal letto e si avvicina alla parte. Posa la mano sul
gelido muro e come per incanto un pannello si apre. Spalanco la bocca sorpresa.
Siamo immersi sott'acqua. I pesci ci passano accanto come se facessimo parte
dell'ecosistema. Ho studiato la fauna degli abissi ma vedere questi draghi
marini che grazie alla bioluminescenza sembrano enormi lucciole con grandi
bocche e strane appendici lungo il corpo mi sorprende e mi spaventa.
«Benvenuta a Nectunia.»
«Dormirai nella mia stanza», mi informa Elisa. «Per
ora siamo solo noi due, ma in futuro potrebbero chiederci di ospitare nuovi
civili liberati.»
Marco sospira.
«Io condivido la mia camera con altri quattro, non mi
hanno chiesto se volevo condividerla con te.»
Avvampo. Lui sembra non accorgersene, posa le labbra
sulle mie e mi bacia dapprima con delicata soggezione poi sembra dimenticarsi
del luogo in cui siamo e della presenza di Elisa. Mi stringe per i fianchi con
una passione nuova e sconcertante. Mi divincolo viola per l'imbarazzo.
Elisa scoppia a ridere.
«Sei impazzito?» protesto.
«Forse», risponde poi si volta di spalle e se ne va.
«Scusami», farfuglio guardano Elisa che al contrario
di me sembra serena.
«E di cosa?» risponde. «Coraggio, mentre ti accompagno
nella nostra stanza, ti spiego la funzione degli inibitori ormonali che ci
somministrano dall'età puberale.»
«Di che cosa parli?»
«Ai maschi e alle femmine è riservato un trattamento
diverso, ma il concetto è uguale. Inibendo gli ormoni l'Ordine si assicura che
non ci siano coppie che si ribellano alla macchina DNA, che non ci siano figli
nati dal ventre materno e tutta una serie di altri effetti collaterali.»
Sono il Generale di una campagna contro il più grande
inganno costruito dal Governo per rendere schiavo il popolo abbagliato dalla
perfezione di ogni cosa.
I ricordi dell'epoca antica sono proiettati nelle
scuole, nelle chiese, nelle strade, e nessuno oserebbe sostenere che in questo
presente fatto di droni che sostituiscono le stelle, e di macchine che
setacciano il DNA selezionando “la specie” non sia meglio degli stupri, pulizie
etniche, malattie e catastrofi naturali. Il popolo felice si culla nell'Arca
attendendo che dieci uomini e una donna fantoccio decidano della loro vita.
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