Dovevo fare qualcosa, subito. La mia mente
era tornata lucida, ma il mio corpo? Quello non ne voleva sapere di muoversi,
dannazione. Provai a dire qualcosa, ma mi uscirono solo dei mugugni appena
udibili. Mi serviva il mio potere.
Concentrati,
Lee…
Spensi il cervello, come mi aveva detto
Angus, e provai a sentire. Il mio cuore batteva veloce, spaventato da
quell’aggressione che sarebbe finita male, se non avessi fatto subito qualcosa.
Sentire.
Le mani mi formicolarono e un tiepido
guizzo di energia mi percorse il braccio, fino a raggiungere il petto.
Sentire.
Era lì, si addensava sul mio cuore e si
tendeva come un elastico pronto a scattare.
Ancora un po’…
Espirai di colpo e sbarrai gli occhi. La mia
barriera protettiva venne rilasciata con forza, creando uno scudo appena
visibile che catapultò il ragazzo che mi aveva aggredita a diversi metri di
distanza.
«Ciao.»
Nathan mi stava di fronte, alto e
bellissimo come sempre. Sembrava affannato e il suo sguardo era così intenso
che avevo la sensazione che potesse attraversare ogni strato di me e arrivare a
vedermi l’anima.
Il cuore cominciò a battermi più forte.
«Davon non c’è», dissi, sperando di
tagliare corto e tornarmene al sicuro. Feci per chiudere la porta, ma Nathan la
bloccò. Appoggiò la mano sul legno con così tanta forza che persi la presa
sulla maniglia. La porta si spalancò, sbattendo contro il muro.
«Non sono qui per Davon», replicò facendo
un passo avanti, «sono qui per te.»
A quel punto non ero più sicura di poter
respirare. I suoi occhi mi incatenavano, mandandomi in tilt i neuroni.
«P-perché?»
Sollevò una mano e fece per accarezzarmi
il viso, ma si bloccò a mezz’aria, aggrottando le sopracciglia. Era come se il
suo corpo avesse reagito in modo impulsivo, ma la sua mente l’avesse fermato.
Strinse il pugno e fece scivolare il braccio lungo il fianco.
«Stai bene? Chris mi ha detto che sei
stata aggredita e volevo vedere se…» si interruppe. Una ruga gli increspò la
fronte e lui abbassò lo sguardo, confuso.
Ma che diavolo stava succedendo?
Stavo cercando di venire a capo di
quell’assurda situazione e registrai con un secondo di ritardo il suo movimento
repentino.
Nathan mi avvolse con un braccio e mi tirò
contro il proprio petto, stringendomi in un abbraccio che credevo non avrei mai
più ricevuto. Il cuore mi saltò in gola e poi cominciò a dimenarsi, come
impazzito. Il mio corpo cominciò a tremare, mentre gli appoggiavo le mani sul
petto e inspiravo il suo profumo dolce e familiare. La vista si appannò e il
respiro si fece irregolare.
Perché doveva essere tutto così difficile?
Perché doveva fare così male? Desideravo solo stringerlo a mia volta, fosse
stato anche solo per un istante, anche solo per quella volta. Non potevo
lasciarmi andare.
Una
rinuncia è una rinuncia.
«Non posso farlo e lo sai»,
ammetto, stendendomi sulla sabbia per guardare le stelle.
Étienne mi raggiunge e mi si
stende di fianco, sopra ad alcuni petali di rosa rimasti, cerca la mia mano con
la sua e intreccia le nostre dita. Mantenendole allacciate, alza anche il mio
braccio e mi indica un puntino luminoso sopra di noi.
«La vedi quella stella?
Pulsa più forte delle altre, sembra anche più grande.»
Mi avvicino, spostandomi
fino a toccargli il fianco, in modo da vedere dove indicano le nostre dita
intrecciate.
«Sì, la vedo. È la stella
polare?»
«No, quella è Venere. La
stella più luminosa, dopo la Luna. La si vede solo appena cala la notte e prima
che sorga il sole. Ti somiglia.»
«Mi somiglia? Non mi sembra
di avere nulla in comune con la Dea.»
«Oh no, non parlo della Dea,
parlo del pianeta. Appari appena dopo il tramonto e subito prima dell’alba,
come se sentissi il bisogno di attraversare i pericoli della notte tutta da
sola.» Si porta la mia mano alla bocca, posa un bacio sul dorso. «Ma tu non sei
sola. Non dimenticarlo.»
Non sono sola?
Forse potrei provarci. A
parlarne con qualcuno, intendo. Con Bianca o con mio fratello.
Oppure potresti lasciarmi il
posto!
Il cielo si colora di rosso,
mentre un sospiro strozzato mi si blocca in gola e boccheggio in cerca di aria.
Immagini truculente mi passano davanti agli occhi, figure dilaniate da una me
stessa sorridente e insanguinata, assuefatta allo spirito di Sköll.
Mi
stropiccio gli occhi voltandomi sulla schiena, scivolo fra le lenzuola fresche.
Allungandomi sul materasso mi accorgo di essere sola.
Qualche
spiraglio di luce filtra attraverso le tende della finestra e una fitta di
emicrania mi fa strizzare gli occhi. È un peccato che i rovi non aggiustino anche
i postumi della sbronza o dell’assunzione di laudano.
«Ehi»,
Mana mi saluta dalla soglia della camera, indugia lì come ieri sera.
Oggi però
non si appoggia allo stipite perché ha un mazzo di fiori in mano.
Un enorme
mazzo di papaveri.
«Posso?» chiede.
Annuisco,
allungandomi fino a recuperare la maglietta oversize che ieri pomeriggio
avevo abbandonato sul pavimento. Sussulto appena quando stendo il braccio, devo
essermi stirata un muscolo dormendo in una posizione stupida. Comunque è assurdo
che mi chieda se può entrare in camera sua.
Mi metto
a sedere sui talloni mentre si avvicina, lui mi posa i fiori sulle gambe,
accomodandosi sul bordo del letto accanto a me.
«Carini
questi papaveri», dico, fingendo di sorridere mentre guardo gli inquietanti fiori
scarlatti spargersi sulle mie cosce, spiccano sulla pelle bianca come macchie
di sangue.
Non a
caso questo fiore è legato a leggende di guerre e combattimenti.
«Vuoi
andartene, vero? Dopo...» tentenna, sospirando appena si accorge che alzo lo
sguardo verso di lui.
Accompagnati
dal suono delle sue parole, mi tornano alla mente sprazzi della notte scorsa,
il ricordo delle sue mani fredde che esplorano il mio corpo.
Lacci.
Abbasso
lo sguardo sui miei polsi, segnati dallo stesso tipo di linea rossastra che
vedo circondarmi le caviglie. Poso lo sguardo sulla finestra, in cerca di una
via d’uscita.
«Lo
sapevo, è normale che tu soffra. La prima volta fa sempre un po’ più male delle
altre. Se vuoi andartene però non usare la finestra, è pericoloso. Non spaventarti.»
Mi prende il viso con una mano, voltandolo in modo da guardarmi negli occhi. «Ehi,
sono ancora io.»
«Io…» tentenno,
sfuggendo alla sua presa.
Sei
ancora tu, questo è certo. Ma chi sei in realtà non lo so.
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