Il Domatore sghignazzò eccitato. «Bene… che la battaglia abbia inizio.» Sollevò il braccio in aria e fece cenno alle sue truppe di avanzare.
Come in risposta, il kark emise un verso agghiacciante. I tamburi di guerra batterono il ritmo e l’Armata del Drago esultò con un boato imponente prima di mettersi in moto. Si avvicinarono fino a vedere i vessilli di Aghoria: sventolavano con eleganza sulle vette di torri e mura, esibendo lo stendardo bianco incorniciato da un filo d’oro avvolto in ramificazioni di cardi in fiore, al cui interno troneggiava la quercia smeraldina.
Quando l’Armata del Drago scorse le difese della città da vicino, venne privata di tutto l’entusiasmo e della sicurezza iniziali.
Aghoria appariva solida, impeccabile e impenetrabile.
Una goccia di sudore le solcò il viso fino alla punta del mento e precipitò sul pavimento. Lenara aveva le guance imporporate a causa dell’allenamento. Stava boccheggiando, con le mani poggiate sulle ginocchia. Le faceva male ogni parte del corpo, non solo per lo sforzo fisico a cui non era abituata, ma perché aveva dinanzi una maestra impietosa.
«Ancora» sentì dire di nuovo, con il consueto tono tanto inflessibile quanto privo di qualsiasi emozione umana.
Sospirò prima di ravviare una ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio. Si morse il labbro inferiore mentre raccoglieva il pugnale dalla lama di quarzo nero. L’arma, forgiata ad Arkada da Xashidern, con una «X» incisa sulla guardia crociata e l’ametista incastonata alla fine dell’elsa, le era sempre piaciuta, anche se non era mai stata in grado di usarla come meritava.
«Quel pugnale è come te» affermò atona la voce femminile che le distava solo qualche metro. «Pregiato, affilato, dall’aspetto affascinante e dal potere eccezionale…»
Se solo non avesse saputo che quella frase proveniva dall’assassina Lamanera, avrebbe pensato che fosse un complimento.
«…Ma inutile in mani inesperte come le tue. Non esprimerà nemmeno una decima parte del suo potenziale, finché tu non sarai capace di maneggiarlo come si deve.»
Il Domatore si tolse l’elmo. «Sono il generale Torio.» Fece due passi in avanti e precisò: «Sei qui per mia volontà».
«Lieto di fare la vostra conoscenza, mio signore» replicò con un leggero cenno del capo, «mi chiamo Quejil e sono qui al vostro servizio, ditemi soltanto cosa desiderate che io faccia.»
Torio andò a sedersi su uno scranno lì vicino. Prima di rispondere si mise comodo. «Voglio sapere cosa saresti capace di fare per aiutarmi in questa battaglia.»
L’uomo lo imitò, accomodandosi. «Come certamente sapete, supponendo che sia questa la ragione principale per cui mi avete richiesto, sono un demonologo…»
Il Domatore, spazientito, gli fece cenno con la mano di andare avanti. «Niente giri di parole, va’ dritto al dunque. Cosa puoi fare? A che servono i segni che hai sul corpo? Dicono che voi demonologhi sappiate richiamare e controllare i demoni.»
«Dicono bene, mio signore» confermò, lasciando trapelare un certo vanto, «studio i demoni e qualunque cosa correlata a essi fin da quando ero fanciullo, e come pochi sono in grado di evocarne tra i più temibili, ma soprattutto controllarli. Per l’appunto, i glifi e i sigilli disegnati sulla mia pelle servono a instaurare un collegamento con loro, a padroneggiare meglio la mia arte e a ridurne gli effetti negativi.» Quejil accavallò le gambe prima di continuare. «Vedete, la cosa più complessa e pericolosa è riuscire a gestirli, perché ogni demone è un concentrato di caos e distruzione, delle vere e proprie furie incontrollabili quanto i disastri peggiori presenti in natura. Non credo esistano bestie più selvagge e indomabili…»
Torio si chiese se quell’ultima frase fosse una provocazione, ma poco gli importava. Piuttosto, sogghignò all’idea di un demone a sua disposizione. «Non esistono bestie più selvagge e indomabili…» ripeté in un sussurro meditabondo, «sono esseri intelligenti o istintivi?»
Negli occhi di Quejil brillò un insano scintillio. «No, in verità sono molto intelligenti, furbi e bramosi di sangue. Ogni demone è imprevedibile. Tra loro esiste una gerarchia di potere, ovviamente, dove i più stupidi e bestiali sono alla base e i più astuti e brutali s’impongono al comando. Nessun abitante degli Abissi può essere minimamente paragonato alle creature presenti in questo mondo.»
Il cavaliere nero non accusò l’intento di Quejil, il suo tono di vanto gli scivolò addosso come se nulla fosse. Per lui il demonologo non rappresentava altro che uno strumento per raggiungere il proprio obiettivo.
«Voglio sapere cosa sono in grado di fare, perché voglio provare
a domarne uno» esordì secco.
Quejil sgranò gli occhi, non riuscendo a trattenere il proprio sgomento. «Mio signore» esitò, «ma questo è impossibile!»
Il cavaliere nero corrugò la fronte. «Le persone ritengono impossibili le cose che semplicemente non hanno mai visto.»
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