L’umanità ha fallito. La Madre Lios, stanca dei continui soprusi subiti, ha distrutto la razza umana, salvando solo pochi eletti.
Millenni dopo, gli Elit, uno dei sette popoli della Nuova era, proibiscono le emozioni negative. Un giovane, però, viene meno a questo giuramento. Mizar è irascibile, scontroso e in eterno conflitto con se stesso; nulla può contro la sua parte più oscura.
In tutto il mondo, intanto, prende corpo una macabra consapevolezza: i bambini stanno nascendo senza anima. Lios ha mantenuto l’antica promessa.
Un viaggio obbligato di dominio e conquista condurrà Mizar negli angoli più sperduti del globo dove, insieme alla giovane Kaila del popolo guerriero dei Dashu, affronterà I suoi demoni.
Il Male degli Avi non ha ancora vinto…
Manà non rispondeva. Mizar decise di entrare nella stanza da letto, anche se sapeva che di solito lei non vi trascorreva mai il tempo durante il giorno. La porta era chiusa. Lui bussò. «Sono io... posso entrare?». Appoggiò l’orecchio alla porta e sentì dei singhiozzi. Senza pensarci, l’aprì di scatto e vide l’anziana che piangeva, piegata su una culla.
Il cuore di Mizar ebbe un sussulto. Mai in tutti quegli anni l’aveva vista piangere. Qualche volta era stata malata o triste, ma non aveva mai pianto. Mizar si irrigidì; vedere quella donna, scossa dai singulti, gli strinse il cuore e, come se ad ogni passo spostasse centinaia di chili, le si avvicinò, si inginocchiò accanto a lei e le mise una mano sulla schiena.
«Manà, che succede? Dimmi!». Lei alzò lo sguardo, il viso rivelava tutti i segni del tempo e le lacrime accentuavano quelle piccole rughe, che di solito erano nascoste dal sorriso. Aveva un’aria stanca e stravolta. Lo strinse forte, come mai in tanti anni aveva fatto.
«Oh Mizar, siamo perduti», sibilò tra i singhiozzi. «Dove abbiamo sbagliato?».
Lui l’abbracciò ancora più forte.
«Perduti? Che vuoi dire?». Ma era presto per fare domande, il pianto andava accolto, doveva dimostrare di essere all’altezza degli insegnamenti che aveva ricevuto e aiutare Manà a ritrovare il suo equilibrio. La lasciò sfogare e, dopo poco, il pianto diminuì, i singhiozzi divennero lenti respiri, finché lei non fu pronta a staccarsi dall’abbraccio.
Lo guardò negli occhi, era più tranquilla. Gli accarezzò il viso come solo una madre poteva fare, le mani magre e nodose mostravano i segni del tanto lavoro. Solo allora Mizar si accorse che dentro la culla c’era una neonata. La piccola era sdraiata supina, le mani e le gambette raccolte, respirava tranquilla e non emetteva suoni. Quando la guardò, il cuore e la mente si fermarono.
Gli occhi della bambina, spalancati e fissi, erano vacui, opachi, grigi come il fumo e senza l’iride. La piccola non si muoveva.
Manà si alzò di scatto, prese Mizar per mano e lo portò davanti al fuoco acceso nell’altra stanza. Cominciò a prepararsi un infuso, continuando a tirare su col naso.
«Piangi per lei?». L’osservava mentre era intenta a mescolare fiori secchi, da anni ormai era molto più bassa di lui.
«Sì».
«Ma... non è morta, sta respirando, è forse cieca?». Mizar sentì lo sguardo della donna su di sé.
«Ti sembra che io possa piangere per una bambina cieca? Cercherei di guarirla, piuttosto!».
«Che cos’ha allora? Perché i suoi occhi sono bianchi?».
«È quello che non capiamo, Mizar. Da diversi anni, ormai, stanno nascendo bambini così. Sono sani, il loro corpo sta bene, svolgono le normali attività fisiologiche, ma è come se non fossero... vivi!».
«Cosa intendi?». Lo sguardo del ragazzo era rapito da Manà, ma lei continuava a pensare alla bambina nella culla.
«Vuol dire che mangiano e dormono, il loro fisico cresce per un po’, ma non hanno volizione, è come se...». L’anziana si interruppe, era in cerca di parole che non voleva pronunciare.
«Come se?», incalzò l’altro.
«Come se... non avessero l’anima!».
A un tratto l’anziano iniziò a parlare, la voce profonda e lo sguardo freddo erano rivolti all’intera platea. «Questo mondo non è nostro, ci è stato dato da coloro che ci precedono per condurlo alle generazioni future, come dono, impegno, missione», il silenzio tra gli spettatori era palpabile.
«Ci fu un tempo, lontano quasi cinquemila anni, in cui gli uomini si sentivano superiori a tutto. Tra gli Avi aleggiava la convinzione che la Terra fosse di loro proprietà e che potesse essere controllata. Così, per migliaia di anni, annientarono tutto ciò che cresceva su di essa. Dopo millenni di sofferenza, quando il male divenne superiore al bene, la Madre Lios, che fino ad allora si era rivelata attraverso pochi uomini saggi, si mostrò al mondo intero e, l’uomo che tanto si credeva potente e incontrastabile, soccombette sotto la sua ira».
Barius gesticolava mentre parlava e la sua voce, forte e calda, arrivava al cuore di quei giovani assorti, portando loro la storia degli Avi e del male che essi avevano procurato.
«Ai più poveri, gli umili, gli esclusi, Lios si rivelò. Essi lessero i suoi segnali ed ebbero l’umiltà di crederle. Così, solo una manciata di popoli lavorò in segreto per centinaia di anni, costruendo, generazione dopo generazione, saldi rifugi nelle montagne. Ignari di quanti stessero facendo altrettanto. È così che nacque la nostra Amirit».
Le braccia di Barius indicarono la Città antica, che si erigeva davanti a loro come una costruzione stupefacente.
«Nel giorno in cui Lios si ribellò, fuori da quelle poche montagne, non vi fu altro che morte».
Alcuni ragazzi avevano gli occhi pieni di lacrime, nel ricordare la violenza perpetrata dagli Avi.
«La Madre parlò ai cuori di tutti coloro che sopravvissero e oggi tramando a voi, nuovi Elit, le sue parole: “Io sono Lios, Io sono voi e voi siete me. Ho scelto di donarvi la possibilità di continuare un cammino che chi vi ha preceduto non ha saputo perseguire. Ricordatevi le mie parole, perché mai più verranno ripetute. Sappiate trovare il modo che più vi conviene per rimanere in contatto con me, con l’energia di cui il tutto è fatto. Perdetemi anche solo una volta, e non ci sarà nessun futuro”».
Mizar trascorreva le giornate con Daarok, allenava il suo corpo a superare le sfide, ma i momenti ai quali si era più affezionato erano quelli in cui, sul fare del tramonto, si ritrovavano a parlare.
Pensava che Daarok fosse un uomo strano, tanto inquietante quanto profondo e, soprattutto, simile a lui. Non parlava mai del suo passato, quando tentava di ricordare, era vago e Mizar non insisteva. Notava, però, che si incupiva e l’atteggiamento sempre fiero e imponente per un attimo traballava, lasciandolo con un alone di fragilità. Ma durava solo qualche istante e poi recuperava tutto il suo orgoglio.
In un pomeriggio inoltrato, mentre erano seduti vicini, Daarok ruppe il silenzio dei loro pensieri. «Credo che sia giunto il momento che tu impari a maneggiare un’arma».
Mizar si rabbuiò. «Ma esse non sono gli strumenti che hanno condotto gli Avi alla distruzione?».
Il capitano si irrigidì, sentiva che gli insegnamenti del passato erano ancora forti nel cuore del ragazzo, nonostante li rifiutasse. Proseguì con tono risoluto: «Sai, conosco anche io il passato del nostro mondo. Il problema non sono tanto le armi, o il loro utilizzo, quanto l’intenzione che nasce dietro le cose. A volte vale la pena fare dei sacrifici».
«Anche se quei sacrifici sono delle vite umane?».
L’altro sogghignò con aria sicura e beffarda. «Mi sembra che il tuo popolo non abbia tenuto conto delle tue sofferenze o della tua vita, davanti al suo scopo».
Mizar lo guardò dritto negli occhi. «In parte è vero, ma non hanno mai attentato alla mia vita». La tristezza lo colpì, ripensando alle tante volte che Manà l’aveva aiutato.
Daarok continuò tranquillo, come se l’aria di sfida del ragazzo non lo avesse turbato. «Ma, converrai con me, che dove non c’è accettazione, non può esserci vita soddisfacente. E, a quanto ho visto, il tuo popolo ti ha sempre sacrificato, isolandoti. Non è dunque la stessa cosa?».
«L’isolamento e il pregiudizio non equivalgono alla morte», c’era rabbia nella voce del ragazzo, ma il maestro non parve notarla.
«Quindi le umiliazioni che ti hanno inflitto negli anni, che ti hanno tramutato in un’ombra dalla quale tutti fuggivano, ti hanno fatto meno male della ferita alla spalla o della brutta cicatrice sulla mano?».
Mizar rimase pietrificato, non ci aveva mai pensato e, in effetti, i ricordi di quella vita passata a fuggire erano di gran lunga peggiori di quelli legati ai segni sul suo corpo. Rilassò le spalle e non rispose. L’orgoglio gli impediva di ammettere che il suo mentore avesse ragione.
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