Gennaio,
estrema periferia romana, notte fonda senza sogni.
Con la
testa incassata tra le spalle e le braccia incrociate sul petto a difendersi
dal freddo, osserva il muro davanti a sé. Anzi, quello che c’è sopra. È la
prima volta che si cimenta con spray e mattoni, lui che fino a quel momento i
graffiti li ha provati solo in scala ridotta, la matita in una mano e tanta
fantasia da riversare sui fogli.
Ha scelto
il muro in fondo al Dieci Buchi, quello che fa da tappo alla stradina senza
uscita in origine chiamata Vicolo degli Astri, un muro grigio che ora grigio
non è più. Che ha bevuto il sangue dei fratelli D’Amato dalla pozza ai loro
piedi, muto testimone di una delle tante facce disgraziate della miseria.
È
successo l’anno scorso, in primavera, lo ricorda perché il bar sotto casa aveva
già messo in mostra l’enorme uovo di Pasqua per la riffa. Era scoccata la
mezzanotte, si dice, e Giovanni D’Amato aveva le tasche piene dell’oro del
portagioie di sua madre. Oro da barattare con un rotolo di banconote. Perché la
scimmia sulla schiena amava essere ingioiellata.
Giovanni
D’Amato tremava d’astinenza. E di paura. Perché suo fratello Paolo era lì
davanti. Perché glielo aveva detto, che se avesse ripreso a bucarsi l’avrebbe
fatto lui una volta per tutte. L’avrebbe bucato.
Paolo
D’Amato parlava poco. E mai a vanvera. Era uscito di galera da due settimane:
tentato omicidio.
Così, uno
tremava e l’altro camminava. Uno era spalle al muro in fondo al vicolo cieco e
l’altro a quel muro si avvicinava.
Chi
avesse detto a suo fratello dove trovarlo e a che ora, Giovanni non l’avrebbe
mai saputo.
Perché
Paolo D’Amato parlava poco. E mai coi morti.
Nove
bocche di sangue si aprirono sul corpo di Giovanni D’Amato, nove iniezioni di
un grosso ago a serramanico. Cadde a terra scomposto in un’overdose d’amore
fraterno. Proprio mentre il blu intermittente di una gazzella in ricognizione
si infilava nella stradina.
Beccato.
Braccato.
E
fissando quell’animale scattare andandogli incontro quasi volesse incornarlo al
muro, Paolo D’Amato decise di bucarsi anche lui. Un’unica, mortale dose sparata
dritta nel collo. Talmente potente che del serramanico penetrò anche un pezzo
di impugnatura.
Così si
dice.
A distanza
di un anno, se si guarda bene durante i giorni estivi più luminosi, quando il
sole picchia in mezzo al cielo e la mattina cede il passo al primo pomeriggio,
si può cogliere ancora qualche residuo di sangue sull’asfalto. Macchioline di
un colore diverso, nient’altro. Macchioline essiccate di vita che fu.
Un altro grido. Mi affaccio in corridoio e vedo degli infermieri correre verso una stanza poco più avanti. In lontananza la ragazza urla ancora.
Lucia?
Ho davvero paura che sia lei. Devo capire se è così.
«Resta qui» faccio ad Alessandro e corro per raggiungere la stanza di Lucia.
Un medico entra difilato e io mi avvicino per controllare cosa stia accadendo. Lei è sdraiata sul letto. Un infermiere con la stessa struttura fisica di Martin le sta a cavalcioni, bloccandole le braccia. Lucia continua a gridare. Alterna strilla a frasi senza senso.
«No, no. Perdonami.» Urla.
«Non volevo.» Grida.
«Ho pa-paura.»
Il modo in cui urla l’ultima parola mi fa tremare. Quello strillo era carico di disperazione, angoscia e panico.
«Lucia?» pronuncio il suo nome sottovoce. Faccio un passo per entrare nella stanza, ma un secondo infermiere con in mano una siringa piena di liquido trasparente mi chiude la porta in faccia.
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